martedì 28 ottobre 2014

Il dialetto e il colore della pelle

"Sempre più lingua italiana, dialetto in calo costante. La fotografia scattata dall’Istat e che si riferisce al 2012, restituisce questo scenario: oltre la metà, il 53,1% delle persone di 18-74 anni (23 milioni 351mila individui) parla in prevalenza italiano in famiglia. L’uso prevalente del dialetto in famiglia riguarda il 9% della popolazione di 18-74 anni (3 milioni 976 mila persone). 
Un dato che diventa interessante se confrontato con quello del 1995, quando il 23,7% degli italiani in famiglia parlava solo o prevalentemente vernacolo. 
E, secondo l’Istituto di Statistica, a difendere l’uso della lingua italiana sarebbero soprattutto le donne, che in grande percentuale (55,2% a fronte del 51% degli uomini) accantona l’idioma dialettale."

Dalla pagina del Corriere "Cala l’uso del dialetto in casa" apprendiamo che così l'Istat ha fotografato lo stato attuale dell'uso del dialetto e la cosa non sorprende. Il confronto del dato con quello del 1995 introduce la domanda: che ne sarà del dialetto tra altri vent'anni, ma ne introduce anche la risposta. 
La demografia d'altra parte registra cambiamenti importanti nella composizione della popolazione e nulla è così potente nella storia dei grandi spostamenti di popolazione. Questo contribuisce a modificare l'assetto linguistico e, in generale, la cultura spesso in modo imprevedibile.
Importante è quindi che localmente, e qui arriviamo a noi, venga fatto ogni sforzo per consolidare quelle conoscenze che tuttora abbiamo sul nostro dialetto al fine di renderle patrimonio della comunità fidentina indipendentemente da come si evolverà il colore della nostra pelle. 
Questo vuol dire codificare il dialetto borghigiano parlato dal punto di vista grammaticale, sintattico e fonetico. Questo vuol anche dire arrivare a iniziative inserite nel ciclo scolastico o extrascolastico, non basta, anche se contribuisce, la lettura di poesie nel Ridotto del Magnani o la rappresentazione di lavori teatrali dialettali.
Io, per ora, ho finito. 
"Ädèssa a vüätar . Adesso a voi politici, cittadini, vernacolisti, uomini di cultura e di spettacolo, docenti e discenti.


5 commenti:

  1. Tra 20 anni, parleremo un patois,composto da dialetti del Sud, misti a lessico rumeno ed albanese; in altre zone, l'italiano sarà soppiantato dall'arabo. Non andremo più in chiesa, perlomeno due volte l'anno, a pregare Dio, ma all'ex- Palazzetto dello Sport, allora divenuto, definitivamente Centro Islamico Ennour, ad invocare Allah ed il Suo Profeta. Niente più salumi, lambrusco e fortana, ma solo kebab e cous-cous. Al posto del vescovo Mazza, in vescovado, presiederà la vita politica e religiosa di El-Buragh, un imam. scelto tra gli immigrati "fidentini", di quelli che ora frequentano le Scuole Elementari e Medie. Niente più Natale, Pasqua, Ferragosto e così via, un bel Ramadan per tutti, volenti o nolenti, donne in camicione, velate, dai 10 anni in su. In luoghi più a Sud, tutte le sante domeniche, processioni con statuone di santi e Madonne, con doveroso e rituale inchino, davanti alla magione del capomafia locale di turno, anche lui, ora, scolaretto di qualche istituto scolastico per bimbi, qui a Borgo.

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  2. Avevo scritto un lungo commento che, purtroppo, è sparito ed ora non ho più tempo di rifarlo. Mi limiterò soltanto a postare , con un copia e incolla, alcuni stralci del voluminoso Cap. 1° del Dizionario Etimologico Borghigiano sulle cui carte ho trascorso parecchie notti. Il titolo del Cap. è “BREVI NOTIZIE” (brevi è un eufemismo). È un’anteprima per l’importante blog dell’amico Ambrogio Ponzi.
    Il dialetto non è il giullare delle lingue, né la lingua dei giullari. Non serve solo per far ridere, raccontando barzellette o recitando farse e commedie; esso è una lingua dotta, con la quale si può pregare, piangere, scrivere romanzi, trattati e quant’altro.
    Indagare, studiare, valorizzare, parlare e scrivere il proprio dial. non deve essere una forma di nostalgia e di rimpianto del passato, ma dev’essere “cura della parola e della scienza del linguaggio”. Diventiamo insopportabili e un pò stupidotti, quando vogliamo convincere noi e gli altri che “una volta” era tutto più bello, più buono, che c’era più amore e che si andava d’accordo etc. È una forma di esagerato e, spesso, ipocrita cordoglio che non condivido. Non deve essere così per il proprio dial.: esso non appartiene ad un nostalgico “passato”, nel quale ha solo le radici, ma è un presente vivo e palpitante.
    Il dialetto non è una lingua morta, è molto più languente l’Italiano, soffocato dai neologismi, dalle storpiature e dall’anglosassone imperante. È languente all’ultimo soffio il latino (che non è ancora morto stecchito), ma non il dialetto. Questo è solo malato e ci sono pochi medici e poche medicine per curalo, ma ha dentro di sè, una forza tanto potente da permettergli di tenersi in vita da solo. Se non lo si bastona continuamente, però.
    Chi teme che il rinvigorirsi dei dialetti, sia un pericolo per l’Unità Nazionale è in errore. Il dialetto è una forma di identificazione e di appartenenza, come può esserlo il proprio cognome, o il cognome della madre, cioè le due famiglie dalle quali ognuno proviene. L’uomo ha bisogno di “appartenere”.
    Per chi insiste in un’arcaica e scolorita dialettofobia ritenendo il vernacolo la lingua degli ignoranti, dichiaro: io, ancor piccola, sentivo il già vecchissimo dr. Tridenti del 1880 circa, parlare un bellissimo dialetto e così sentivo parlare tutti i cosidetti “ricchi” e acculturati di Borgo quando interloquivano in Piazza o davanti le caffetterie più eleganti. Altresì, non ritengo giusto lasciarsi trasportare da correnti dialettomaniacali perchè tütt i tròpp i stan par nöžar e modus in rebus. Dobbiamo dare il giusto senso ad ogni cosa: la lingua italiana ha unito e deve continuare a farlo, una nazione che era sparpagliata; la lingua vernacola deve tenere unita una città prima che si sparpagli. Via dalla mente anche l’idea che il dial. sia proletario e l’italiano capitalista o che sia di sinistra in contrapposizione al fascismo che aveva dichiarato guerra ai dialetti.
    Grandi menti come Benedetto Croce, Antonio Gramsci, Giacomo Devoto, Francesco De Sanctis, Di Mauro, P. Paolo Pasolini, hanno lottato a favore dei dialetti, ritenendo la loro soppressione una “barbarie” che avrebbe procurato sterilità alla cultura linguistica. Satriano Lombardi, ritiene che, l’Italiano, non sia un riscatto culturale, ma un suicidio della cultura tradizionale espressa dai dialetti. Il Di Mauro afferma che “l’aggressività antidialettale della Scuola, non ha né basi storico-linguistiche, né ragioni sociologiche positive, né giustificazioni psicopedagogiche”.

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  3. Viene da sorridere se ci si rende conto che molte parole che riteniamo italiane di ultima/penultima/terzultima generazione, sono invece prese da diversi dialetti e non ce ne accorgiamo. Per es.: ciào (Ven.,) grissino (Piem.), cotechino (Lomb. Ven. Emil.), pizza, mozzarella (Campania), zafferano (arabo), abbacchio (Lazio, Toscana), camorra (Campania), mafia (Sic.), persona, mondo, satellite (etrusco), bùfalo (osco-umbro), parabola, martire (Bibbia Vulgata) etc.
    Per parlare e scrivere bene in dialetto, si deve pensare in dialetto, perchè esso è una forma mentis che bisogna assolutamente possedere. Per volgere l’Italiano in dialetto, non si deve tradurre letteralmente la frase! Bisogna stravolgerla! Le si deve dare la sua gramm., la sua sintassi, e la sua giusta costruzione. Ecco perchè diventa rischioso (come ho già detto) tradurre opere ital. in rima: o tradisci il testo originale o tradisci il dialetto.
    Nel Concilio di Tours, voluto da Carlo Magno nell’813 d.c., si stabilì che i vescovi dovessero tenere l’Omelìa nella lingua “rustica”, al fine di farsi capire dai fedeli la cui disobbedienza alle leggi della Chiesa, poteva essere causata dall’incomprensione del latino. L’Atto Ufficiale di quel Concilio dà il via alla nascita delle Lingue Romanze, mentre nel Giuramento di Strasburgo (842) viene sancita la 1ª lingua romanza: il francese.
    Di recente ho esaminato un vocab. (non etim.) di dialetti emiliani, redatto da un’unica persona, la quale mette in bocca ai Parmigiani di Parma, parole piacentine, così ribadisco la mia teoria: ogni vernacolista deve occuparsi del dial. del proprio campanile, quello che Dante chiamava “municipalismo”, diversamente si crea confusione e si diffondono notizie inesatte.

    Molti dial., cosidetti moderni, definiti dopo il 1500, posseggono una vasta letteratura e tanti documenti, redatti nei secoli scorsi, sono firmati: Conte Tal dei Tali; Eccellenza Signor Vescovo Tal dei Tali; Dottor o Professor Tal dei Tali; Canonico Tale; Avvocato Talaltro; Arcipreti; Marchesi, dunque persone colte. Quindi, ripeto, non è vero che il dialetto era una lingua solo parlata, come non è vero che fosse la “lingua degli ignoranti”. In proposito, posso garantire che, trattati agrari, economici, bandi, anche statuti, non venivano scritti nella lingua dei conquistatori, ma nel diverso lat. di ogni epoca, misto al dial. del luogo.
    Dopo la caduta dell’Impero Romano 476 d.C. con la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre, gli idiomi locali, ripresero vigore (ma il fenomeno era cominciato anche prima) e divennero addirittura segno di grande prestigio nelle corti, tanto da essere parlati da tutti. Li chiamavano Il Volgare che ha dato una significativa impronta ai dialetti “moderni”.
    Che la lingua fiorentina assurgesse a lingua nazionale è avvenuto nonostante Dante (De Vulgari Eloquentia) giudicasse il suo dialetto inadatto a diventare la Lingua Italiana, mentre riteneva degno di attenzione allo scopo, il Bolognese, quello spurgato e reso illustre dal poeta ed amico Guido Guinizzelli (1200). Ennesima prova che i dialetti erano anche scritti e da grandi letterati.
    Anch’io mi fermo qui. Per ora, però.

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  4. Chiedo scusa: nell'estrapolare varie frasi da un contesto ben più ampio, ho effettuto un copia-incolla che risulta con un errore di consecutio. Messo così, doveva essere: "Che la lingua fiorentina, sia assurta a lingua nazionale..." e non "assurgesse".

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  5. Sono d'accordo su qualsiasi iniziativa che tenga vivi la conoscenza del dialetto ed anche il suo utilizzo,tranne che per quelle inserite nel ciclo scolastico.I nostri bimbi già arrivano alla maturità che non sanno parlare e scrivere decentemente in italiano, lasciamo perdere con il dialetto. E non mancano nemmeno maestri e prof che parlano un patosi tra un italiano scadente ed i dialetti d'origine, del tipo: passami lo scatolo, scendimi il libro, salimelo, lo voglio bene, lo telefono, mantieni questa cosa, per significare Tienila in mano..

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