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venerdì 24 marzo 2023

Rose Montmasson e le altre (II di III)

Ricordo, come omaggio, di alcune donne del Risorgimento Italiano.

Cristina Trivulzio, ritratto, Francesco Hayez, 1832, collezione privata, Firenze

Altra donna che partecipa attivamente al Risorgimento è la principessa Cristina Trivulzio (Milano 1808/1871), sposa a sedici anni del nobile Emilio di Belgioioso, impenitente donnaiolo.Patriota, giornalista e scrittrice, malaticcia per tutta la vita - il marito le tramette la sifilide, di suo soffre di attacchi di epilessia - e per tutta la vita peregrina in viaggi estenuanti lontano dalla sua terra.

Molto ricca (la più ricca ereditiera d’Italia con una dote di 400.000 lire austriache), frequenta salotti liberali mazziniani tanto che il suo passaporto “Lombardo” è nella lista dei sospesi dalla polizia. Donna audace, non ha paura dell’esilio e della povertà, quando le capita si adatta a fare umili lavori.

Scriverà nei suoi Ricordi nell’esilio:
“Ricca erede, cresciuta nelle costumanze dell’aristocrazia milanese, non conoscevo proprio nulla delle necessità della vita [...] non potevo rendermi conto del valore di un pezzo di cinque franchi. [...] Potevo dipingere, cantare, suonare il pianoforte, ma non avrei saputo fare l’orlo a un fazzoletto, cuocere un uovo sodo od ordinare un pasto.”
Dopo il fallimento dei moti del’31, si rifugia in Francia e, da lì, finanzia il movimento insurrezionale modenese di Menotti, che fallisce, lasciandola senza soldi.
Riprende i rapporti con la madre e recupera parte del suo patrimonio.
Nel suo salotto accoglie gli italiani in fuga, artisti e musicisti. Riallaccia pure i rapporti con il marito che si stabilisce a Parigi.
Nasce la figlia Maria.

Nel 1834 dona 30.000 lire per finanziare il colpo di mano mazziniano nel Regno di Sardegna. Per l’occasione, la nobildonna ricama con le proprie mani le bandiere degli insorti.
Nel 1840 ritorna in Lombardia, ma le sue idee sono in netto contrasto con quell’aristocrazia che non abbandona l’imperatore d’Austria.
Lo stesso Manzoni le vieta di assistere la madre Giulia Beccaria morente, cui era legata da sincera amicizia: troppo scandalosa la sua vita per essere accettata da un cattolico.
Cristina allora volge lo sguardo alla drammatica situazione di povertà dei contadini e dei loro figli in quei luoghi. Apre un asilo, una scuola elementare e scuole professionali maschili e femminili, riducendo il tasso di analfabetismo.

Lotta pure per riportare l’ordine sociale, imponendo la chiusura delle osterie durante le celebrazioni religiose e oltre le nove di sera. In una sala del suo palazzo offre accoglienza alle madri con i neonati, pasti a basso prezzo, medicine per i malati e doti alla donne prossime all’altare.
Il suo esempio, comunque, non è seguito dagli altri proprietari terrieri della Lombardia, come lei spera. E lo stesso “pio” Manzoni, saputo dell’asilo per bambini poveri, esclama: “ma se ora i figli dei contadini vanno a scuola, chi coltiverà i nostri campi?”

Ritorna a Parigi dove il marito sparisce per sempre dopo l’ultima scappatella.
Editrice di giornali rivoluzionari, finanzia la Gazzetta Italiana (1845) che non è gradita dai patrioti mazziniani, poi l’Ausonio, sempre osteggiata.
Il suo obiettivo, comunque, non era la monarchia, ma una repubblica italiana simile a quella francese; tuttavia, se per arrivare alla repubblica bisognava prima unire l’Italia, l’unico mezzo era di appoggiare la monarchia dei Savoia.

È a Napoli quando scoppia la rivolta delle Cinque giornate di Milano. Organizza allora, e accompagna, quello che è chiamato con un po’ di ironia “l’esercito Belgioioso”, pagando il viaggio a 200 volontari, patrioti napoletani, imbarcati in piroscafo fino a Genova, e da qui a Milano. Costretta ancora all’esilio, va a Parigi.
Si reca poi a Roma con Mazzini e si unisce ai patrioti della Repubblica Romana.

Nell’aprile 1849 le viene dato l’incarico di formare un comitato di soccorso ai feriti, e di direttrice delle ambulanze civili e militari, ma la mancanza di mezzi è grave, e a questo si aggiunge, come lei dice 
“Il consiglio di sanità composto da neri (preti) e di asini e l’intendenza di ladri”.
In quel frangente cura due patrioti volontari il cui nome passa alla storia: Nino Bixio e Goffredo Mameli. Il primo lievemente ferito, guarisce subito; al secondo viene tolta una pallottola dalla gamba sinistra, ma la garza dimenticata nella ferita fa infezione e provoca la cancrena. L’amputazione dell’arto non lo salva e muore tra le sue braccia. È lei, infatti, a dare l’estremo saluto al giovane autore dell’Inno “Fratelli d’Italia”.

Trascorre giorno e notte negli ospedali che riesce ad organizzare, a sue spese fa arrivare farmaci, si espone ad ogni rischio e “inventa” le infermiere, che ancora non esistevano: dame aristocratiche, donne borghesi e anche qualche prostituta, che accorrono al suo toccante appello.
Cosa che, quando si viene a sapere, non manca di scandalizzare i benpensanti e lo stesso Papa, che nell’Enciclica “Noscitis et N...” di fine anno, la insulta volgarmente: “Miseri infermi già presso a morire, [...] costretti ad esalare lo spirito tra le lusinghe di sfacciata meretrice”, cui Cristina risponde rispettosamente, ma per le rime, con una pubblica lettera indirizzata anche ai giornali:
“Santo Padre, non sosterrò che tra la moltitudine di donne che, durante il maggio e giugno 1849, si dedicarono alla cura dei feriti non ve ne fosse neppure una di costumi reprensibili: Vostra Santità si degnerà sicuramente di considerare che non disponevo della Polizia Sacerdotale per indagare nei segreti delle loro famiglie, o meglio ancora dei loro cuori. Mi accadde, l’ammetto, di venire informata che l’una o l’altra delle aiutanti dell’ospedale fosse nota per aver esercitato in precedenza una professione disonesta. Se quell’avvertimento mi fosse arrivato prima, indubbiamente le avrei escluse, ma tale non era il caso. Le donne che mi venivano denunciate erano state per giorni e giorni a vigilare al capezzale dei feriti; non si ritraevano dinanzi alle fatiche più estenuanti, né agli spettacoli o alle funzioni più ripugnanti, né dinnanzi al pericolo, dato che gli ospedali erano bersaglio [proprio per il continuo criminale incitamento papale] delle bombe francesi. Nessuno poteva rimproverare a quelle donne una parola o un gesto meno che decoroso e casto. Ciò nonostante, forse avrei potuto ugualmente espellerle se non avessi io adorato il precetto di quel Dio che, in sembianza umana, non disdegnò che una donna di perversi costumi gli ungesse i piedi e glieli asciugasse con le sue lunghe trecce...”
(Durante i funerali di Pio IX – considerato santo da papa Wojtyla – la polizia e i bersaglieri riuscirono a stento a trattenere la folla che, spintonando brutalmente, si era già impadronita della bara per gettarla nel Tevere).
Dopo la sconfitta della Repubblica Romana, rimane ancora per curare i feriti, ma è accusata di “Sentimenti irreligiosi” anche perché li assiste, insieme alle sue aiutanti, con le maniche arrotolate e le braccia scoperte, per comodità e per il caldo, altro scandalo per quei tempi. La stampa dell’epoca la incolpa addirittura di fare alzare la febbre ai pazienti con la sua bellezza. Si sente odiata dai francesi.
Amareggiata, si imbarca a Civitavecchia con la figlia e vaga per diversi anni nel Mediterraneo. Dopo varie tappe e peripezie arriva in Turchia.

Con soldi a prestito fonda una colonia agricola aperta a profughi italiani, assiste la popolazione e si guadagna da vivere scrivendo articoli sui Paesi dell’Asia Minore. Subisce anche un accoltellamento da un suo lavoratore per essersi intromessa nel suo legame con la compagna che lamentava continue violenze.
A Gerusalemme, prima donna italiana in quelle terre, fa battezzare la figlia.
Nel ’55 ottiene dalla burocrazia austriaca la restituzione dei suoi beni, per cui torna in Lombardia.

Dopo l’Unità d’Italia lascia ogni attività politica e vive col servo turco e la governante inglese fino alla fine dei suoi giorni.
Molto famosa in vita, non solo in Italia, ammirata anche per il suo carisma, il coraggio e l’anticonformismo, ora è quasi dimenticata.
In un suo saggio sulla condizione delle donne, conclude:
“Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori e alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, appena sognata felicità”.


Adelaide Bono seduta vicino ai ritratti dei figli  morti, foto carte de visite.


Non si può dimenticare, poi, Adelaide Bono, contessa, patriota italiana (Milano 1806/Pavia1871). Nota come la madre dei fratelli Cairoli è considerata un modello di madre della nazione incarnante gli sviluppi intellettuali femminili nell’Italia dell’Ottocento:

“Prima ancora dunque che alla causa femminile io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda”.
Orfana di padre a cinque anni, riceve da giovane una profonda educazione religiosa.
Dimostra un carattere forte salvando la madre dalle minacce di un ex dipendente della famiglia che voleva ucciderla con la pistola.
A diciotto anni sposa Carlo Cairoli, medico chirurgo e cattolico praticante, più vecchio di ventotto anni, vedovo con due figli.

Nonostante la salute malferma concepisce otto figli che cura istruendoli ai sentimenti patriottici. Donna di vasta cultura, benestante e generosa, finanzia giornali legati a quegli ideali, ospita un salotto politico letterario e tiene una ricca corrispondenza con intellettuali del periodo.
Rimasta vedova nel’49, affronta con realismo una difficile situazione economica.
Tutti e cinque i suoi figli maschi partecipano alle lotte per l’indipendenza d’Italia. Molto presente nella loro vita, in continuo contatto epistolare, li va a trovare più volte negli acquartieramenti dei garibaldini, grazie anche alla sua notorietà tra i patrioti italiani che la accolgono con affetto, e segue con una mappa i loro spostamenti.

Il primo a partire volontario (1848) e l’unico a salvarsi è il primogenito Benedetto, che sarà poi Presidente del Consiglio del Regno d’Italia.
Dopo la morte di Ernesto, arruolatosi nel 1859 tra i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e caduto in battaglia, viene colpita da febbre alta e convulsioni, ma si risolleva subito per apparire in pubblico appassionata patriota.
Con grande forza d’animo si reca a Quarto (GE), l’anno dopo, per salutare Benedetto ed Enrico, volontari nella Spedizione dei Mille.

Ambedue feriti, sono raggiunti da Luigi, che muore a Napoli nel settembre 1860 dopo essersi distinto nell’impresa siciliana e aver partecipato alla marcia di risalita nella penisola. Durante la traslazione della sua salma da Napoli a Pavia, le numerose cerimonie pubbliche che si susseguono testimoniano la crescente popolarità di Adelaide.
Ippolito Nievo, scrittore e patriota garibaldino, scrive di lei: 
“Va segnando di tombe e di lacrime il sentiero di glorie per cui l’Italia ritorna alla sua grandezza”.
Mazzini ed altri patrioti scrivono ad Adelaide di convincere Garibaldi a riprendere la lotta per la conquista di Roma, sapendo del loro rapporto di stima reciproca.
Il generale acconsente e inizia la spedizione nel 1862, ma viene fermato e ferito in Aspromonte dall’esercito piemontese.

Nel 1867 cade Enrico nello scontro a fuoco di Villa Glori – ultimo tentativo, guidato da Garibaldi e appoggiato da Mazzini, di conquistare Roma - e due anni dopo muore anche Giovanni, gravemente ferito nello stesso conflitto. Con le celebrazioni in onore di quest’ultimo, il quarto figlio morto durante le guerre per l’indipendenza d’Italia, la fama della madre dei fratelli Cairoli raggiunge l’apice.

(Il Museo del Risorgimento fidentino conserva una camicia rossa appartenuta a Enrico. Consegnata da Adelaide a Luigi Musini - il medico borghigiano, volontario garibaldino cui è dedicato il Museo – in segno di gratitudine per averle portato una ciocca di capelli recisa al cadavere del figlio a Villa Glori, dove anche lui aveva combattuto scampando alla strage).

La donna, considerata Madre della Nazione, vive i suoi ultimi anni a letto, sofferente, accudita dall’unico figlio rimasto, ma sempre sostenendo la causa patriottica, affermando che il dolore di una famiglia è poco in confronto all’ideale dell’Unità vera d’Italia.
Così Garibaldi scrive nel settembre 1860 dopo la partenza di Luigi:
“Il suolo che produce delle donne come Adelaide è un suolo sacro. La Nazione italiana non può perire con donne simili. Chi potrà mai vantarsi dei sacrifici fatti? Nessun sacrificio può paragonarsi a quello che una madre fa pe’ suoi figli. L’amore di una madre non può nemmeno essere compreso dagli uomini. Nel presentarmi a lei io mi sentivo come un rimorso. Se questa madre m’avesse rinfacciata la morte dei suoi figli, avrei dovuto chinare il capo e compatire al rimprovero per i due giovani caduti, ma mi presentava i due che ancor le restavano. Con donne simili una nazione non può morire”.
Fidenza 21 marzo 2023                               Mirella Capretti

 Continua

1 commento:

  1. Molto interessante, peccato che la "storia ufficiale" dimentichi sempre il ruolo delle donne.

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