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mercoledì 21 febbraio 2024

Una tela “napoletanissima” nel Museo del Duomo di Fidenza

 La crocefissione di Sant’Andrea di Girolamo Cenat(i)empo

Composizione originalissima, con grande affollamento in terra ed in cielo,  per questo pregevole “crocefissione” di Sant’Andrea, di proprietà della Cattedrale, opera entrata a far parte delle collezioni del Museo del Duomo di Fidenza (PR), già  esposta presso la Galleria Nazionale di Parma.

LA CROCEFISSIONE DI SANT’ANDREA, olio su tela, 1,25x 0,98.

Fratello di Simon Pietro, e di professione pescatore insieme a  lui (Mt 4, 18-19; Mc 1, 16-17), Andrea, già discepolo di Giovanni Battista (Gv 1, 36), fu il primo degli apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù (Gv, 1, 40-43), e pur tuttavia la sua figura rimane scarsamente “illuminata” dal racconto dei Vangeli canonici: nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10, 1-4) e in Luca (6, 13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1, 13-14), mentre la tradizione evangelica ne rammenta il nome solo in altre tre occasioni particolari: la moltiplicazione dei pani in Galilea (Gv, 6, 8-9), il discorso di Gesù, a Gerusalemme, sulla fine del mondo (Mc 13, 1-4) e, poco prima della Passione, sempre a Gerusalemme, quando Gesù annuncia la propria glorificazione attraverso la morte (Gv. 12, 20- 28). In ogni caso, il legame di sangue con Pietro e la comune chiamata rivolta loro da Gesù, dovettero garantire ad Andrea autorevolezza e prestigio nell’ambito della Chiesa primitiva.

Bisognerà, nondimeno, attendere la tarda Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (sec. XIII) per disporre d’un “assetto iconografico” articolato e compiuto De Sancto Andrea apostolo: forse poco attendibile sul piano storico, ma ineludibile fonte d’ispirazione nella storia della rappresentazione artistica del “Protocleto”, cioè del “primo chiamato”, come ancora lo nomina la Chiesa Orientale.        

          Ed è appunto all’opera duecentesca dell’arcivescovo di Genova, nota pure nei manoscritti più antichi col titolo di Legenda Sanctorum, che sembra rifarsi anche il “nostro” pittore napoletano il quale raffigura sant’Andrea come un vecchio vigoroso dalla lunga barba bianca issato su una croce a forma di X o decussata, cioè ad incrocio trasversale inclinato, divenuta poi emblema e principale cifra identificativa del martire: è la fase culminante della “crocefissione”, che la tradizione colloca nell’antica città greca di Patrasso, e dove, nel 1964, ritornò l’insigne sua reliquia  del capo, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, quale segno di ritrovata fratellanza tra la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli.

Come si può vedere, la “sceneggiatura” del martirio è attualizzata al tempo della dominazione ottomana ed il pittore non esita a ricorrere ad alcuni evidenti anacronismi, come gli abiti ed i copri capi turchi del variopinto popolino che assiste all’esecuzione, mentre in primo piano a destra si distingue nettamente un notabile orientale con barba, manto e turbante; l’appariscente personaggio sembra appoggiarsi al bastone mentre davanti a lui, compaiono due donne con un bambino, improbabili concubine senza il velo e dalla tipica grazia mediterranea. 

Egea, lo spietato proconsole romano, di cui parlano gli Atti degli Apostoli è, invece, riconoscibile, in primo piano, sulla sinistra, in groppa a un focoso destriero; egli indossa elmo e corazza e tiene saldamente impugnato nella mano destra il bastone del comando; tra i suoi attendenti, un alfiere col gonfalone rosso e altri soldati, che sembrano guardare con indifferenza i carnefici mentre legano il santo (fu legato non inchiodato alla croce) e si apprestano a trafiggerlo con la spada; altri giannizzeri mischiati tra la gente ostentano minacciosi le loro lance o frecce acuminate, sotto lo sguardo dubbioso di un uomo sulle cui spalle pende il cappuccio lungo e aguzzo d’un caffetano chiaro; intanto nel cielo solcato da nubi corrusche compaiono in gran numero gli angeli, che si apprestano a porgere al martire la palma della vittoria.

Colpisce in questa piccola tela, ritrovata nell’ultimo dopoguerra in un ripostiglio della sagrestia e fino a qualche anno fa esposta nell’aula capitolare della Cattedrale fidentina, la straordinaria vivacità della rappresentazione ambientata nei pressi di una città fortificata, le cui mura, come è stato a suo tempo acutamente osservato, ricordano i bastioni del  Maschio Angioino e quindi piazza Castello, luogo «dove per spontanea conduzione si localizzavano da secoli fatti veri o leggendari di Napoli» (Cfr. A. O. Quintavalle, Mostra parmense di dipinti noti e ignoti dal XIV al XVIII sec. Parma, 1948, p.116).

Anche la segnatura, G.mo Cenatempo, apposta in basso, sopra un sasso, a destra, non lascia adito a dubbi sull’origine partenopea del quadro: si tratta infatti di Girolamo Cenatempo o Cenatiempo (Napoli, attivo tra 1705 e 1744), come veniva abitualmente chiamato questo illustre seguace di Luca Giordano e di Francesco Solimena, che la storia dell’arte colloca tra gli artisti più rappresentativi del Settecento napoletano.

Non esistono notizie precise sul percorso seguito da questo vivacissimo dipinto, dal «colore succoso ed intenso che ne fa interessanti anche le convenzionali figurine da presepe» (A. O. Quintavalle, op. cit.), per arrivare fino alla Chiesa di san Donnino di Fidenza, ma non va sottovalutato il legame che intercorre tra il soggetto della tela e il beneficio canonicale fondato in Cattedrale nel 1341, sotto il titolo appunto di Sant’Andrea.

D’altra parte, il culto dell’apostolo ha radici profonde nella chiesa di Borgo, se già sul finire del Cinquecento, e più precisamente nel luglio 1595, il canonico Alfonso Trecasali lamentava la scomparsa, nel territorio di Lodispago, a nord di Fidenza, di una chiesa dedicata al santo apostolo: «[ …] una nova qual mi dispiacque molto e ciò è che la notte […]   passata era cascato in terra tutto il tecchio della chiesa campestre di S.to Andrea posta et situata sopra il territorio di borgo posto nel quartiero di Lodispago con parte delle muraglie di detta Chiesa posta presso la casa della possessione di detto messere Don Josepho, della qual chiesa è rettore uno D.o Andrei de Calandri: qual Chiesa è andata a terra per puocha cura di chi gli doveva provvedere; nelli altri luoghi si fabbricano chiese et a casa nostra quelle che vi sono si lasciano andare a male, mai più si rifarà detta chiesa. Iddio ci aiuti». (B.Pal. Pr. Trecasali, ms. 439, f.378).

Nominata negli atti ecclesiastici parmensi già a partire dal sec. XII ( G. Drei, Le carte degli archivi parmensi, III, Parma 1924-1950), la ecclesia S. Andreae de Vadum Spagorum” (toponimo di etimologia incerta, interpretabile, tuttavia, come  “Guado degli Spaghi”, dal nome di questa famiglia borghigiana proprietaria di vasti insediamenti lungo il torrente Stirone) è ricordata anche dallo storico locale Stanislao Ferloni (sec. XVIII), che, nel rammentarne la scomparsa, dà notizia  del trasferimento in Duomo degli obblighi relativi:  forse è  troppo  azzardato pensare alla piccola tela  come ad un bozzetto per una pala d’altare, ma non si può certo escludere la volontà dell’allora Canonico Prebendario di  riproporre,  in chiave anti-turca - evidente il richiamo allegorico al “martirio” dei cristiani sotto l’Impero Ottomano -, e, a distanza di oltre un secolo dal crollo della chiesa di Lodispago, l’antica devozione all’apostolo della croce, la cui festa liturgica è fissata, come noto, il 30 novembre.

 In verità, altri canonicati della Cattedrale traevano le loro rendite dai possedimenti situati nella vasta zona di Lodispago, come sembrano testimoniare i toponimi tuttora esistenti di “Prevostura” e “Santo Stefano”, allineati con quello di “Sant’Andrea” che, a nord di Fidenza, indica probabilmente l’ubicazione originaria della sua antica chiesa. Al canonicato di Santo Stefano, in particolare, è possibile collegare inoltre la scoperta in Cattedrale di alcuni “antichissimi” affreschi, ritrovati e poi subito distrutti, nel 1853, durante i lavori di riattamento della cripta (cfr. A.Aimi-A. Copelli, Storia di Fidenza, Parma 1982, p. 279). 

Ma per tornare al martirio di sant’Andrea firmato da Girolamo Cenat(i)empo, pittore probabilmente mai uscito dai confini del Regno di Napoli, va rimarcato ancora l’incredibile turbinio di angeli e la colorita moltitudine dei curiosi che attorniano il patibolo su cui è innalzato l’apostolo evangelizzatore del mondo greco e primo vescovo di Patrasso. Anche la croce, in una “scenografia” così multicolore, sembra smettere il tradizionale ruolo di cupo strumento di tortura per diventare mezzo luminoso di assimilazione a Cristo, secondo le parole gioiose che la tradizione mette in bocca al martire nel momento del supplizio: «Salve o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo […]. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi […]. Sicuro, dunque, e pieno di gioia io vengo a te, perché tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te […]. O Croce beata […] prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro […]. Salve, o Croce; sì, salve davvero!» (Passione di Andrea, VI sec.).

Da tanta trasversalità di motivi e varietà di personaggi emerge un sorprendente campionario di umanità con la stessa teatralità d’un vivacissimo presepe napoletano, ma anche il linguaggio sciolto e avveduto d’un pittore formatosi all’ombra del Vesuvio, che ai tradizionali soggetti devozionali sapeva affiancare, secondo Federico Zeri, spettacolari rappresentazioni di scontri e battaglie.  

Guglielmo Ponzi

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