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domenica 10 marzo 2024

Ricordi sparsi di quasi 50 anni fa

Santa Maria del Taro - Ponte dei Priori


"Quando pensavo di andare ad insegnare e invece imparavo"
di Mirella Capretti

In quell’anno avevo cinque sedi: Santa Maria del Taro, tre classi; Bedonia, altre tre; Fidenza una; Soragna una; Fontevivo una. 
Avevo accettato l’incarico perché mi avevano promesso il “ruolo” l’anno successivo. Infatti l’anno dopo mi diedero la sede a Bedonia.

Per recarmi a Santa Maria del Taro mi alzavo alle 3,30, il treno per Borgotaro partiva da Fidenza alle 4,10. Andando verso la stazione, vicino alla chiesa di Santa Maria, incrociavo gli operai diretti in Vetraria: loro a mezzogiorno avevano già fatto otto ore e andavano a casa, a me, invece, mancava un’ora e mezza di lezione e tornavo alle 16,10... Il viaggio proseguiva poi in corriera, da Borgotaro a Bedonia; da lì, altra corriera per Santa Maria. Arrivavo alle 8, il lunedì e il martedì, con disappunto del bidello di nome Salerno - proveniente da Salerno – che doveva alzarsi mezz’ora prima, aprire la scuola per me, perché le lezioni iniziavano alle 8,30.
Da lui ho imparato ad apprezzare il tarassaco: un giorno arrivò a scuola con una borsa enorme piena di queste piante, fiori gialli compresi e mi disse: “Questo è oro!”. Io, nata in campagna, lo conoscevo come piscialetto, e lo evitavo. Me ne decantò allora tutte le virtù...

Nel tragitto in corriera, una signora di Borgotaro, saputo che venivo da lontano e avevo due bimbi piccoli a casa, cercava di consolarmi intrattenendomi a parlare. 

Mi faceva notare le piante di ginestre addossate alle rocce a picco che delimitavano la strada, quasi a toccare il mezzo, e mi diceva: “Vedrà che bei fiori in primavera!”. Io che venivo dalla bassa pianura Sinistra Po (là non è chiamata bassa perché è tutta piatta), non le conoscevo e pensavo tra me e me: “Cosa vuoi che venga fuori da quegli ‘spuncioni’ lì!”.
Passavano le settimane, infatti, e non vedevo foglie crescere su quei rami sottili che finivano a punta; poi improvvisa l’esplosione di fiori gialli, che più giallo non si può, una sorpresa meravigliosa. 
Ora ne ho una pianta anche nel giardino della mia casa natia. 

In Provveditorato, dove avevo ricevuto l’incarico, mi avevano anticipato che avrei avuto un alunno cieco in III media: così, tornata a casa, cominciai a girare per le stanze ad occhi chiusi, per vedere come me la cavavo, ma nonostante conoscessi l’ambiente da anni, non mi raccapezzavo... 
E Giovanni, questo il suo nome, cominciò ad essere un pensiero per me... Naturalmente là non c’erano insegnanti di appoggio. 
Lo vidi però sicuro salire i tanti gradini, con una mano appoggiata alla ringhiera, delle due rampe di scale, per arrivare in classe. 
Li contava. Allo stesso modo contava i passi dal banco alla porta, attraversava dritto il corridoio e seguendo con la mano la parete andava in bagno. Faceva lavoretti con plastilina e segnava le forme con un punteruolo su una tavoletta plasticata. 
Quando si annoiava cominciava a dondolarsi sulla sedia, cercavo di farlo parlare e lui mi raccontava... I compagni erano pronti ad aiutarlo. 

Avevo imparato qualche parola in braille, che ora ho perso, ma conservo un cartoncino dove mi ero fatta scrivere l’alfabeto. Ogni volta però che prendo in mano una scatola di medicine e ‘vedo’ quel carattere, mi si stringe il cuore. Io, poi, con l’artrosi alle mani ho poca sensibilità nelle dita e avrei difficoltà a interpretare...lo penso anche quando mangio una mela, perché mi è successo di addentarne una, bella, che sembrava perfetta, ma dentro aveva il verme: se capitasse a lui...lo penso pure quando cerco l’asciugamano ad occhi chiusi per il sapone... 

Ricordo un altro momento per me delicato e particolare: quando programmarono la prima udienza dei genitori e avrei dovuto incontrare la sua mamma. Mi avevano detto che aveva altri due figli più piccoli, e anche l’ultimo era cieco. Povera mamma, con che parole potevo rivolgermi a lei, come consolarla? ... Mi trovai di fronte una persona serena, dolce, e fu un bell’insegnamento per me! Anni dopo per caso rividi di lontano tutti e due, che si tenevano per mano, ad uno sportello in un ufficio di Parma; sarà che ero di fretta, ma forse no, non ho avuto il coraggio di salutarli, mi dispiace, sicuramente avrebbero gradito! 

Le classi non erano molto numerose (tutto un altro mondo in tutti i sensi quando son venuta ad insegnare in pianura...), ragazzi educati e corretti, tranquilli e amanti delle loro montagne. Non avevano il libro di Educazione Artistica, solo i testi essenziali, delle materie più importanti. Io disegnavo alla lavagna e loro copiavano... 
Al sopraggiungere dell’inverno mi sorpresero, perché nessuno di loro aveva il cappotto: mi dissero che erano abituati fuori tutto il giorno, con gli animali, e il fuoco, in casa, lo accendevano solo per far da mangiare. 

Un giorno, fin che lavoravano in silenzio, mi si chiusero gli occhi, seduta in cattedra. Il rumore di una sega mi fece sobbalzare e guardare fuori dalla finestra proprio di fronte: stavano tagliando un pino nel bosco, altissimo, perfetto. 

Lo vidi cadere, con emozione, che rivivo. Non ricordo cosa dissi, forse espressi il desiderio di vedere una fetta di quel tronco, per contare gli anni... Il giorno dopo, a sorpresa, mi portarono tre fette bellissime, grandi. Ero senza parole!... Contammo i cerchi: erano venticinque. 
I ragazzi si raccomandarono, però, di bollirle in acqua: quello, mi dissero, era l’unico modo per poter conservare integro il legno fresco. Purtroppo io non avevo contenitori adatti per quelle dimensioni, feci bollire allora dell’acqua e la versai sopra, ma dopo pochi giorni le fette cominciarono a crepare a raggera e a rompersi. Riuscii a mantenerne unita solo una, con una crepa: ora sta sopra una porta del corridoio di casa mia con un crocifisso... 

Mi insegnarono anche a conservare le castagne: in terra, dentro una buca profonda rivestita di foglie e coperta di foglie. Così a primavera inoltrata i frutti preziosi sembravano appena raccolti. E pure i funghi secchi: in un sacchetto di carta attaccato al tubo della stufa (io, da allora, li tengo vicino alla caldaia). Anche a bere con una foglia, ma non ricordo la pianta... Chiudendola con due lembi la usavano come bicchiere alla sorgente. 
Mi dissero che da quelle parti facevano cuocere la carne su una lastra di ardesia, roccia dei loro monti - usata per coperture di tetti, pavimenti, lavagne - che ne esaltava i sapori. La chiamavano “la ciapa”. Ma era molto costosa. 

A Santa Maria del Taro ho mangiato “la baciocca”, una torta di patate finissima, tipica del posto. Là ho visto la neve più alta della mia vita: muri di neve! Ma si scioglieva presto perché arrivava aria dal mare distante una trentina di chilometri in linea d’aria. Così mi è capitato tante volte di fare lezione con la finestra aperta in pieno inverno, e si stava bene! 
Quando tornavo, ancor prima di Fornovo, trovavo altri muri impenetrabili, ma di nebbia fitta, e molto freddo. Lo dicevo a casa, ma nessuno mi credeva. 
Le scale per salire in classe erano addossate a una parete di sassi da cui uscivano cascatelle di piantine con foglie piccole piccole e delicate. L’esplosione di fiorellini a stella a primavera inoltrata, mi presero il cuore, e ne portai a casa un ciuffo. Da allora, in ogni ritorno di stagione, le stelline fanno da corona ai miei vasi sul balcone, e proprio qualche mese fa ne ho mandato una piantina a un mio collega di Borgotaro, che era rimasto senza. Mi dispiace non avere gli elenchi scolastici con i loro nomi, come conservo, invece, delle classi di Fontevivo, Fontanellato e Fidenza, che trattenevo dopo aver portato gli alunni in visita guidata. 

Quando iniziava la bella stagione, andavo su in macchina, ma era sempre presto; il ciambellone gigantesco di sole, sfumato dal rosso arancione al giallo verso l’alto, che vedevo all’orizzonte prima di abbandonare la Via Emilia per proseguire verso Fornovo, non aveva prezzo! 

Ricordo l’esame di terza media in cui un alunno voleva recitare una poesia, ma l’insegnante di lettere non la voleva sentire. Lui ha chiesto ancora due volte e quasi si metteva a piangere, ma senza risultato. Sembrava quasi che la poesia fosse inutile tra quei monti...erano gli anni in cui anche il dialetto non godeva di simpatie nella scuola. 
E sempre nella vita si fa qualche passo avanti e qualcuno indietro. 

Ho un rimprovero anche per me stessa, questo legato a una classe di Bedonia, dove due cugini erano bravissimi in tutto. Ricordo che disegnavo i capitelli alla lavagna e loro li rifacevano perfetti, ma, memore di quello che aveva detto un mio insegnante delle superiori: “Mai dare un voto alto nel primo quadrimestre, se no l’alunno si siede e fa più niente”, non li gratificai, e quell’ottimo, meritatissimo e non dato, mi accompagna ancora... 

Il martedì dopo le prime due ore a Santa Maria, dovevo andare a Bedonia. Alla fine della terza ora c’era la ricreazione, così potevo ritardare qualche minuto, perché è sempre stata un’impresa fare quel tragitto. Avevo un contratto con un taxista di Santa, ma ne ho usufruito poche volte, aveva sempre qualche problema: la macchina dal meccanico, un lutto in famiglia, non si sentiva bene, si dimenticava... spesso ho dovuto fare a malincuore l’autostop (fortunatamente erano tempi diversi da oggi!). 

Anche quel giorno arrivai che era appena suonata la campanella di fine intervallo. Salite le scale mi ritrovai nel grande corridoio dove tutte le classi erano aperte con i ragazzi seduti e tutti gli insegnanti erano sulle porte. Un’immagine strana che mai avevo visto e che mi si è stampata in mente. Cos’era successo? Chiesi. Era stato rapito l’onorevole Moro. Arrivò poi l’invito del Preside Allegri a scendere in Piazza, dove parlò ai ragazzi e agli insegnanti con il megafono. Era palpabile la gravità del momento. Si andava a casa. 
Ma ormai era già tutto bloccato, non c’erano né corriere, né treni per ritornare a valle. Non so come, io e una mia collega riuscimmo ad ottenere un passaggio in camion dal papà di un nostro alunno che andava a Fornovo, rimanendo però chinate per non esser viste. Stranamente ricordo il nome di quel signore! Arrivati però alla Fondovalle, dove la ferrovia costeggia la strada, ci invitò a scendere, perché era più facile lì incappare in un controllo e per lui sarebbero stati guai. Ringraziammo e ci incamminammo a piedi. 
La mia collega che veniva da Fontanellato aveva la macchina in stazione e gentilmente mi accompagnò a Fidenza. 

A Valmozzola, Mormorola, credo l’anno prima, avevo una III media, era rimasta solo quella classe, era l’ultimo anno, poi chiusero la scuola. Gli alunni erano sei, uno in meno della classe ideale di Giosuè Carducci. Ricordo i nomi dei primi due... Là andavo al mercoledì, alle ultime due ore, arrivavo nel momento dell’intervallo. Ricordo il profumo del pane fatto in casa che avevano per merenda. E pensare che i loro genitori lo facevano al giovedì, quindi quello che portavano aveva una settimana! 
Il disagio era tanto per arrivare a scuola: là potevo arrivare solo in macchina, e il vetro ghiaccio in pendenza, con un testa coda da formula 1 in curva – piccolo miracolo senza conseguenze, per cui ringrazio ancora il Buon Dio - lo ricordo ancora; ma la lezione era una bella realtà che non ho più vissuto in seguito... 

Vicino a Natale i ragazzi mi proposero di andare a raccogliere il vischio, pianta augurale presente nei loro boschi. Mi convinsero con piacere. Il mercoledì successivo quando arrivai, erano fuori dalla scuola ad aspettarmi con due grosse roncole. Era freddo, ma c’era il sole. Ci incamminammo verso il Mozzola, che era molto in basso, scendemmo e attraversammo il torrente che in alcuni punti aveva l’acqua trasparente, in altri diventava verde bottiglia, oppure blu, saltando da un sasso all’altro. 

Dire che era un posto meraviglioso, è poco. Ma bisognava vederlo per apprezzarlo. Salimmo la riva opposta e proseguimmo per un po’. Ad un certo punto uno dei ragazzi disse: “Ecco il vischio!” Mi fermai. Davanti a me vedevo niente, allora mi girai su me stessa di 180 gradi... io il vischio l’avevo visto disegnato sulle cartoline e sui biglietti di auguri per Natale, con le foglie rotonde in punta e le palline bianche...e pensavo fosse un cespuglio. Chiesi: “Dov’è?” Mi dissero: “”, e indicarono in alto. Grande sorpresa! 
Ci sono momenti nella vita che non si dimenticano... Vidi un arboscello appeso ad un albero a testa in giù, ma non aveva i rametti verdi, le foglioline tondeggianti e le palline bianche, ma rami neri, a zig zag, senza foglie e palline giallo arancio: stupendo. 
Raccontai quello che sapevo e loro mi spiegarono che c’è il vischio degli alberi da frutto, meli in particolare, e quello degli alberi non da frutto, come quello che avevamo lì, di quercia - ma anche castagno e olivo - (vischio quercino) meno diffuso. Mi dissero anche che le bacche, di tutti e due i tipi, composte di una gelatina appiccicosa, sono velenose, addirittura letali per l’uomo, ma non per gli uccelli che se ne cibano e poi si puliscono il becco sui rami, ma i semi devono passare dal loro intestino e poi depositarsi negli interstizi della corteccia per poter far attecchire il cespuglio parassita. 
Un ragazzo aiutato dai compagni salì sulla quercia per tagliare il grosso arbusto, raccolto sotto, poi insieme divisero i rami: quasi mi riempirono la macchina. Si raccomandarono, però, di tenerlo appeso a testa in giù, perché così è la sua natura, magari sopra le porte, e di buttarlo una volta appassito... io però, che sono un po’ ‘conservini’, pensando di far durare di più la freschezza del malloppo, ho provato a metterne un ramo in un vaso d’acqua, senza dire niente. Ecco, il mattino dopo, le palline erano tutte afflosciate, appassite, e l’acqua era tutta densa, gelatinosa... Imparata la lezione!!!.

Ritornando sui monti negli anni successivi, dalla strada, guardando gli alberi, cominciavo a vedere i ciuffetti di vischio, già in primavera. È vero, si vede solo quello che si conosce. Ripensando a quella bellissima esperienza con i sei ragazzi, fuori due ore senza permesso, il bidello che ci aspettava a scuola, le grosse roncole, i pericoli veri del tragitto, l’entusiasmo...e facendo un confronto con gli anni successivi in pianura, dove, a Fidenza, ad esempio, mi avevano quasi proibito di lasciare usare le forbici agli alunni, per il collage, con la paura che si pungessero, e proibito del tutto di uscire con le classi per fare viste guidate!... 
A proposito del bidello, uomo alto e magro, i ragazzi mi raccontarono che una mattina trovandosi nei campi sul tragitto di una femmina di cinghiale con i piccoli, riuscì ad afferrarne uno, con l’intenzione di allevarlo, ma, svelto svelto, dovette riparare subito, tenendolo ben stretto, sopra un albero, perché la madre inferocita lo pretendeva sotto... 
Resistette quasi tutto il giorno sulla pianta, ma alla fine dovette cedere, lasciare il cinghialino alla sua mamma... scendere e tornare a casa.

Mirella Capretti



1 commento:

  1. Ho sempre sostenuto che sei una bravissima scrittrice, Mirella. E ti ho spronato a scrivere e pubblicare romanzi, racconti, quel che vuoi. Sei donna di valore e di valori.

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