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mercoledì 19 giugno 2024

Gli “occhiali” di Andrea Mainardi e la "miopia ebraica" in una tela del Duomo di Fidenza

 

Gli “occhiali” di Andrea Mainardi, «detto il Chiaveghino»

nel Duomo di Fidenza

  Guglielmo Ponzi


Andrea Mainardi detto il Chiaveghino,(1550-1613),
La Purificazione di M.V., olio su tela, 1600, Cattedrale di Fidenza.


Nella cappella del Santissimo Sacramento del Duomo di Fidenza (PR), sulla parete a sinistra dell’altare, merita di essere analizzata con particolare attenzione la tela raffigurante la Purificazione di M. V., opera del cremonese Andrea Mainardi, firmata e datata: Andreas Mainardus cognomento Chiaveghinus faciebat 1600.

Al dipinto (e alla cornice originaria oggi dispersa) si riferiscono le dettagliate indica-zioni fornite dai manoscritti del canonico Alfonso Trecasali (sec.XVII) che descrive l’incarico conferito, nel 1597, all'intagliatore Gabriele Capra e l’inaugurazione, il primo giugno del 1600, della pala d’altare dipinta dal Mainardi : 
«[...]quella anchona che è posta sotto il vocabulo della purificatione della B.Vergine detti consortiati l’hanno fatta fare nella città di Cremona a uno messer Andrea de Mainardi detto il chiavighino habitante nella vicinan-za di santo sepulcro et gli hanno dato per sua Mercede ducatoni numero 58 et l’ornamento d’essa parimenti l’hanno fatto fare in detta città a uno messer Gabrielle de Cremona vicinanza santi Leonardo et gli hanno dato per sua Merce:e ducatoni 40, qual Anchona et ornamento detti Consortiali a spese di detto consortio la presente settimana l’hanno fatta condurre da Cremona a detto Borgo et è venuto messere Gabrielle in Persona a metterla in piedi in detta Capella nel suo luocho cosa che è molto piaciuta a tutta la terra di Borgo e a tutti quelli che la vedono» .
Dalle Memorie di Vincenzo Plateretti, risulta, poi, che nell’anno 1802, la tela con la sua ancona é (es)posta al centro dell’abside, dove, dopo la sistemazione del santuario col nuovo altare maggiore (1738), è stata collocata, nel 1740, dal vescovo Severino Missini, come attesta l’iscrizione incisa nel cartiglio che accompagna la cornice lignea Munifica Ill.mi Et Rev.mi D.D./ Sancti Domn.i / Eppi Pietas An. MDCCXL. Inaugur.

Una rara litografia del 1855, dedicata al vescovo Pier Crisologo Basetti, documenta, infine, la sostituzione della tela del pittore cremonese con la statua lignea dell’Immacolata, opera di Domenico Borella (1823-1891), oggi nella cripta del duomo, in occasione del primo anniversario della proclamazione del dogma mariano, quando il dipinto della Purificazione venne dislocato sulla parete sinistra del santuario: approderà, poi, alla sede attuale sola-mente alla fine del secolo ( 1896).

Ormai privo della cornice originale, il quadro del Mainardi è oggetto di attenzione da parte degli studiosi e citata tra i lavori più importanti di questo protagonista del tardo manierismo cremonese, allievo di Bernardino Campi e collaboratore di Giovan Battista Trotti (F. CAVAZZONI,1985); studi più recenti (A. EBANI,1997) provano che il pittore ha preso spunto, per la figura protesa della Vergine e lo sfondo architettonico, dalla pala di soggetto analogo, dipinta, nel 1575, da Orazio Samacchini per la chiesa di San Giacomo maggiore di Bologna, divulgata da una incisione del 1579-81 di Agostino Carracci.

Ma è nella ricca iconografia che potrebbe ancora nascondersi qualche elemento che non è inutile considerare ai fini di una più completa interpretazione dell’opera.

Alle spalle del vecchio Simeone, tra gli astanti che affollano le navate del tempio, vediamo risaltare il profilo di un giovane uomo barbuto dalla vistosa berretta rossa, che si volta a guardare il curioso personaggio che punta l’indice della mano sinistra verso il Bambino: personaggio che è caratterizzato da barba corta e baffi, da un copricapo cilindrico di colore incerto e, soprattutto, dagli occhiali che premono sulla punta del naso, un dettaglio realistico ma anche un motivo iconografico tutt’altro che trascurabile.

Nello scenario del tempio di Gerusalemme, gli occhiali assumono infatti un chiaro significato polemico riferibile alla presunta “miopia ebraica”, l’ostinata “cecità” degli ebrei davanti alla venuta del Messia; la valenza negativa degli occhiali è rafforzata dal gesto irriverente di indicare il Salvatore-Messia con la mano sinistra mentre la destra rimane impegnata a trattenere il bavero del mantello: un evidente atteggiamento di rifiuto e di chiusu-ra, che emerge con maggiore chiarezza nel disegno preparatorio conservato nelle raccolte del Museo Civico di Pavia.

La datazione, precisa all’anno 1600, rende, poi, la questione ancora più interessante: la rappresentazione dell’ebreo occhialuto può essere, infatti, considerata quasi un’anticipazione di questo particolare motivo iconografico, una scelta comunque abbastanza precoce, se si considera che gli occhiali-simbolici in funzione antigiudaica, pur essendo già presenti nella pittura d’oltralpe tra XV-XVI secolo, sono destinati ad avere piena cittadi-nanza nell’arte sacra italiana solo nel Seicento inoltrato.

Il primo e certamente più illustre esempio è la Vocazione di san Matteo nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi dipinta da Michelangelo Merisi nel 1602. Come avverte Massimo Moretti,
«c’è un particolare nel ciclo della Contarelli che non va sottaciuto e che con grande probabilità fu imposto al Caravaggio. È il personaggio che, nel mentre Cristo voca Matteo, distratto si sistema un paio di occhiali sul naso. Sono gli unici occhiali dipinti da Caravaggio a significare la cecità degli ebrei, la stessa che nel Medioevo veniva rappresentata attraverso la figura della Sinagoga bendata»
Da citare poi la Vocazione di Matteo di Ludovico Carracci (Pinacoteca di Bologna), databile tra il 1605 e il 1607, che richiama inequivocabilmente il quadro di soggetto analogo dipinto da Caravaggio. Il pittore bolognese aggiunge, accanto all’immagine dell’ebreo con gli occhiali, delle figure inturbantate, allargando chiaramente – come sottolinea Moretti - «la chiamata ai mussulmani o agli ebrei levantini» , una categoria quest’ultima ben rappresen-tata nella pittura veneta da Carpaccio, Tiziano, Veronese ecc.

Ed è proprio con un’analoga apertura all’oriente islamico, senza le grottesche forzature del Carracci, che la pala della Purificazione del Duomo di Fidenza offre allo sguardo dello spettatore un’altra rilevante anticipazione.
Ci riferiamo al personaggio orientale raffigurato in abiti sfarzosi e turbante - si direbbe un tipico turbante turco -, in primo piano, a sinistra dell’altare, di fronte al gruppo degli ebrei impegnati nella disputa sul Messia; come si può vedere, l’esotica figura non nasconde lo stupore per le ispirate parole scritturali del vecchio Simeone a proposito di Gesù (bambino) quale luce delle genti e salvezza del popolo d’Israele (Lc.2. 29-32). L’atteggiamento reverente del notabile farebbe, dunque, pensare all’auspicata conversione dell’oriente pagano e, in particolare, del mondo islamico, ma forse anche al tentativo simbolico di esorcizzare la minaccia dei turchi-ottomani che premono alle porte dell’occidente cristiano; un sentimento di paura sicuramente avvertito anche nei territori dell’ex stato Pallavicino, dove si presume fosse ancora vivo lo scalpore suscitato delle imprese balcaniche di Sforza Pallavicino, signore di Fiorenzuola e Cortemaggiore, audace condottiero delle armate cristiane.

Ma c’è dell’altro. La Purificazione di Borgo San Donnino non è stata pensata come opera isolata. Lo si può dedurre da un significativo dettaglio visibile nella citata stampa ottocentesca: qui, la cimasa della cornice, riporta, entro il riquadro solitamente riservato ad una pic-cola immagine, il Martirio di san Donnino in forma stilizzata - è lo stesso soggetto, tra l’altro, d’una vivace teletta seicentesca già esistente presso la sala capitolare del Duomo, in-spiegabilmente scomparsa dopo il 1978-: le sue ridotte dimensioni e la forma rettangolare, l’origine sconosciuta e, soprattutto, lo stile, inconfondibile, che rimanda al Mainardi, lasciano supporre che quello della riproduzione cartacea corrisponda al medesimo dipinto che era presente nella seicentesca cimasa dell’ancona del quadro.

Lo stretto legame tra la pala della Purificazione e il Martirio di San Donnino, è graziosamen-te segnalato anche dalla vivace nota cromatica: ci riferiamo alla vistosa berretta rossa, tipica dei soldati di ventura, indossata dall’ebreo che volge le spalle al Salvatore e che riappare del tutto identica a quella del truce carnefice, rappresentato nell’atto di rinfoderare la spada dopo aver mozzato il capo a san Donnino; allo stesso modo vediamo il volto trasfigurato di Simeone prestare i propri lineamenti al vecchio soldato, che assiste stupefatto al prodigio del santo cefaloforo che si rialza e s’incammina con la testa in mano.

Forse non si tratta solo d’ un capriccio, d’una pura invenzione formale per rammentare il titolo della chiesa dedicata al martire Donnino. Il confronto tra i due dipinti sembra reggere anche sul piano dei contenuti: il martirio del santo è infatti teologicamente associabile al sa-crificio di Cristo, profetizzato da Anna e Simeone nel momento dell’ingresso del Bambino al tempio.

Ora, se l’assenza di documenti e di studi specifici, rendono assai problematico attribuire richiami ed allusioni all’autore e così pure alla committenza, i consorziali di San Donnino, di cui poco o nulla sappiamo, è tuttavia possibile riconoscere nel dipinto fidentino un sicuro valore testimoniale del clima ostile che, alla fine del XVI sec., provoca la “diaspora” della comunità israelitica dalla città di Cremona; ed è proprio la definitiva cacciata di questo insediamento, nel 1597, a costringere numerose famiglie cremonesi verso il ducato farne-siano, dove, stabilmente accolte, daranno origine alle nuove comunità ebraiche di Monticelli d’Ongina ( PC) e di Cortemaggiore ( PC), di Busseto (PR), di Soragna ( PR) e di Fidenza-Borgo S. Donnino ( PR).

Gli “occhiali” di Andrea Mainardi «detto il Chiaveghino», come simbolo della polemica antigiudaica, sembrano, dunque, riflettere un preciso contesto storico che ha il suo immediato retroterra nella bolla pontificia Coeca et obdurata (1593) di Clemente VIII; ad essi il pittore, che trae ispirazione dalle stampe nordiche, pare attribuire una funzione molto particolare: una sorta di “lente d’ingrandimento “capace di leggere tra la folla del tempio di Gerusalemme figure spesso considerate solo alla stregua di anonime comparse.

Un dato questo che illumina ulteriormente la personalità del Chiaveghino il quale espresse, a Cremona, più d’ ogni altro artista, il clima post-tridentino (L. BANDERA, 1997) – esemplari il Cristo compresso sotto il torchio nella Chiesa di S. Agostino e la Disputa sulla Trini-tà di San Pietro al Po -, quando s’impongono le istanze del clero e degli ordini religiosi, impegnati nella capillare difesa dell’ortodossia cattolica contro il morbo della riforma protestante.

Guglielmo Ponzi

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