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sabato 31 maggio 2025

Gaza non ha bisogno di lacrime.

Edifici distrutti nella Striscia di Gaza (AFP)


GAZA HA BISOGNO DI VOCE

Affamati e inseguiti dalla guerra.
Da centinaia di giorni Gaza è un girone d’inferno per gli sfollati che percorrono senza un riparo sicuro i 70 chilometri del ristretto perimetro, chiuso dal mare e dal cemento armato, e per gli ostaggi israeliani ancora prigionieri degli estremisti.
Ordini di evacuazione, spostamenti forzati, bombardamenti, fuoco incrociato. E lo sguardo rivolto a quel cielo da cui scende la condanna delle armi e, contemporaneamente, la speranza degli aiuti sganciati dai rari voli umanitari.
Nel cuore della Striscia di Gaza, una tragedia umanitaria si consuma con la lentezza crudele della fame.

Da troppo tempo in quel luogo diventato l’inferno in terra i bambini muoiono a occhi aperti, le madri stringono corpi ormai senza vita, e i padri scavano tombe a mani nude.
Eppure, il mondo guarda altrove. L’orrore è reale, ma la risposta internazionale è un sussurro, un vago fastidio nella routine dell’attività diplomatica. 

Com’è possibile?
La risposta non sta solo nelle ragioni della geopolitica o nella diplomazia: più aumenta il numero delle vittime, meno ci curiamo di loro.
La nostra empatia si spegne davanti alla massa del dolore.

A Gaza, ogni fotografia di un bambino denutrito dovrebbe spezzare il cuore dell’umanità. Eppure, le immagini si accavallano, si moltiplicano, diventano “troppo”. Siamo entrati nell’età della desensibilizzazione: una nuova era dove la sofferenza delle moltitudini è diventata rumore di fondo e l’anestesia collettiva ci fornisce un rifugio e un alibi.
Le scelte degli Stati sono dominate da ciò che è più “visibile” e conveniente per i leader, pronti e ben disposti a lasciare da parte ciò che sarebbe moralmente più urgente.

Gaza e la sua tragedia non generano voti, né profitti, a meno di raderla totalmente al suolo, di deportare i suoi due milioni di abitanti e di costruirci... resort di lusso.
Così l’indifferenza diventa una strategia mascherata da prudenza diplomatica.

Il risultato?
Un assedio che affama deliberatamente un popolo trasformando il pane in arma. Secondo il diritto internazionale, la fame come strumento bellico è un crimine.

Ma dove sono le sanzioni?
Dove sono le risoluzioni Onu capaci di agire, non solo di “condannare”? L’Occidente ha fatto del “mai più” un mantra, ma ora tace, pavido, mentre si consuma una delle più gravi crisi morali del nostro tempo.

Gaza non ha bisogno di lacrime.
Gaza ha bisogno di voce, di indignazione. Necessita di una rottura netta con l’indifferenza perché ogni bambino lasciato morire di fame per calcolo politico rappresenta il fallimento più atroce di ogni valore su cui la nostra civiltà si fonda.

Riusciranno le piazze che chiedono il cessate il fuoco a Gaza a determinare il cambiamento ormai ineludibile?
Non lo sappiamo, ma Gaza ha bisogno di voce e, in prossimità del 2 giugno, ricordiamo l’Articolo 11 della Costituzione italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”
(AP)

1 commento:

  1. Grazie, Ambrogio.
    Hai fotografato l' orrore vero di Gaza, che contrasta con le nostre indifferenza e abitudine al dolore altrui.
    Ma anch'io rimango inerte, mi sento incapace di reagire concretamente e impotente, demandando la responsabilità a chi governa; e quasi mi meraviglio che chi ha potere o è considerato tale, non riesca o non voglia porre fine al massacro...

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