Pagine

martedì 11 maggio 2010

Ricordo ad acquerello del prof. Ettore Ponzi

Dal catalogo della mostra il ricordo di Mons. Aldo Aimi 


Mi è stato chiesto di premettere al presente catalogo un ricordo del professor Ettore Ponzi da parte di chi l’ha conosciuto. Io sono uno di quei fortunati.
Chiamo questo ricordo “ad acquerello” perché è rapido e leggero.
Ho conosciuto Ettore Ponzi nel 1946 quando, tornato dalla guerra, era stato incaricato di venire a Campolasso, dov’era sfollato il Seminario, per tenere un corso di disegno per le scuole medie.
Lo vedevo arrivare in bicicletta, con vicino alla canna il cavalletto e la tavolozza, e finita l’ora di scuola partiva e girava per le colline in cerca di motivi d’ispirazione. Insomma, siccome lì la zona è molto bella, andava a caccia di immagini.
Assistevo anche alle sue lezioni perché, in quanto studente di teologia, ero incaricato dell’assistenza ai ragazzi delle medie, quindi ero presente anche a scuola. Lo vedo ancora come parlava, come insegnava, come gestiva la classe. Era un uomo essenziale nelle parole, molto chiaro nei concetti e, soprattutto, nella sua gestualità esprimeva molto bene l’idea che voleva trasmettere. Come docente era efficace, essenziale, semplice, chiaro, in modo tale che i ragazzi potessero capire alla svelta, senza tanti barocchismi e senza tante parole. Naturalmente faceva il corso di tre anni, con tutti i programmi che c’erano da svolgere, iniziando dalla squadratura del foglio fino al disegno dal vero attraverso tutti i passaggi necessari: insegnava il tratteggio, le sfumature, il passaggio tra il copiato e il vero utilizzando i corpi solidi geometrici (il cubo, il cono, eccetera) per studiare le ombre.

Quando sono diventato prete l’ho incontrato di nuovo nella Commissione diocesana d’arte sacra, di cui è stato membro per molti anni. Ci si trovava nelle riunioni ma si andava anche in giro per vedere in loco i casi da studiare e da risolvere, e queste erano le occasioni direi più comuni d’incontro. Fu membro della Commissione per molti anni e, per la sua competenza e per le sue prestazioni fu insignito nel 1983 del titolo di Commendatore dell’Ordine Pontificio di San Gregorio Magno.
Poi, però, c’erano i momenti più personali, direi più personalizzati, quando andavo nello studio a vedere un po’ quello che produceva, e lui mi faceva vedere questo e quello, mi illustrava i vari tipi di tecnica, perché era un cercatore, uno sperimentatore di tecniche; lui riproduceva infatti lo stesso quadro con tecniche diverse. Nello studio ho visto i quadri del Duomo, e direi che i quadri che hanno come soggetto il Duomo, fra le opere di Ponzi, sono forse i migliori. Seguono immediatamente i paesaggi nevosi. Nel riprodurre la neve era un maestro; riusciva a rendere il clima della nevicata e la leggerezza della neve in un modo veramente stupendo. Io mi incanto davanti ai suoi paesaggi nevosi, che sono molto belli. Poi ci sono i fiori, particolarmente quelli dello Stirone. In Seminario abbiamo due suoi quadri di fiori, un mazzo di soffioni di tarassaco, davanti a quest’ultimo dico sempre che bisogna trattenere il fiato, altrimenti si fanno volare via i piumini. Infine ci sono i paesaggi dello Stirone.
Si direbbe che i motivi dominanti nella sua produzione sono la città, il duomo, lo Stirone, e i fiori e le erbe dello Stirone, ma ammiro anche molto i suoi autoritratti, che per un pittore sono i dipinti più difficili. Era un bravo pittore, un pittore nato.
Nelle occasioni in cui incontravo il professore, si parlava sempre di tante cose e particolarmente del Duomo.
Nel 1957 terminò la costruzione del Vescovado, nella parte verso la piazza Grandi e in seguito venne costruito il secondo lotto, dove sotto c’erano gli uffici di Curia e sopra la foresteria del Vescovado. La pianta era molto semplice: un lungo corridoio con gli uffici verso il cortile che davano tutti sul corridoio, che era spoglio e monotono. Un giorno incontrandomi con il professor Ponzi gli ho detto: «Qui mi piacerebbe avere una Sua memoria riproducente il bombardamento del Duomo, del vescovado e dei dintorni». Desideravo che restasse una documentazione storica di quanto abbiamo subito, perché non ci sono documentazioni fotografiche in quanto i fotografi si erano limitati a scattare fotografie panoramiche. Desideravo anche che restasse in Curia memoria del professor Ponzi. Lui accolse subito l’idea e, dopo non molto tempo, mi disse: «Ho pronto le tavole da mettere in corridoio» e ha portato gli otto monocromi, che a me sono piaciuti sempre, soprattutto perché preferisco il bianco nero al colore. Allora li ho fatti appendere immediatamente e li ho difesi in tutti questi anni perché avevano per me un valore, sia come memoria del pittore, che perché era l’unica sua testimonianza che avevamo in Curia. Successivamente se ne è aggiunta un’altra ad olio con la parte scultorea della facciata del Duomo e – in Seminario – due quadri pervenuti attraverso mons. Pasetti, che era vicerettore del Seminario vescovile e Presidente della Commissione diocesana d’arte sacra, grande ammiratore dell’opera di Ettore Ponzi, il quale – frequentando anche lui lo studio – aveva chiesto diversi quadri per il Seminario, che ci sono ancora.

Ponzi era partito nel 1940 per il servizio militare. Dell’Albania non mi parlò quasi mai, tranne d’un episodio che mi raccontò lui stesso: Un giorno, in una cittadina albanese era uscito, in perfetta divisa da ufficiale, e , invece del fucile, portava il cavalletto e la tavolozza. Girando per le viuzze della cittadina, cercava una prospettiva da ritrarre. Finalmente la trovò. Piazzò il cavalletto in mezzo alla strada deserta e cominciò a dipingere. Dopo molto tempo, a quadro già inoltrato, si sentì arrivare alle spalle il passo d’una pattuglia nemica. Capì che aveva sconfinato. Si alzò e disse tra se: “Questa volta ci sono!”. I militari, dopo un attimo di perplessità, lo fecero accomodare sul seggiolino e lo invitarono a continuare e si fermarono a guardare fin verso la conclusione dell’opera. Poi, sorridendo, salutarono e se ne andarono. La pittura gli aveva salvato la vita.
Alla sua partenza aveva lasciato Borgo intatto e al suo ritorno, nel 1945, trovò dei ruderi, che hanno dato origine alla sua angoscia, espressa magistralmente nell’invenzione monocroma del 1946 intitolata Il ritorno dei borghigiani.
Era un uomo d’una sensibilità eccezionale, ma allo stesso tempo molto dignitoso, direi quasi fiero, dalla chioma folta e ondulata e dallo sguardo acuto. Aveva mantenuto la scorza del militare, anche nel passo. Era un uomo di volontà decisa, che affrontava le situazioni, ma allo stesso tempo era di una delicatezza, di una timidezza, che a volte sorprendeva. Aveva una percezione di se non tronfia e davanti a chi guardava le sue opere sembrava cercare, mendicare umilmente il giudizio. Il suo carattere era composto da questo doppio tratto, quello esteriore, marziale, e quello interiore, estremamente sensibile, che rivedo rispecchiato nelle sue opere. Ma era anche un uomo di compagnia, gradevole, che ascoltava molto, e sapeva anche dare molto.
Ponzi è stato definito “Pittore di paesaggio”, ma per me questo è troppo riduttivo. Ponzi è “Pittore della natura”. Tutta la natura. Quella grande e quella piccola, quella che ti sta attorno e quella che ti passa accanto. È necessario vedere. Tutto è bello e occorrono gli occhi per vedere. Ponzi è un pittore che vede tutto, ammira, contempla, si innamora e ritrae. E quando ritrae ha già stabilito un dialogo con la natura; ha già interiorizzato e colto “un’atmosfera”, che vuole trasmettere. Di qui nasce l’atmosfera di pace e di serenità e la quiete dello Stirone. Di qui nasce l’atmosfera di silenzio e di intimità della nevicata sulla città. Di qui nasce l’atmosfera di gioia e di speranza del campo di grano al sole. Di qui nasce l’atmosfera di purezza e di delicatezza del soffione. Io ammiro così i suoi quadri.
Ponzi è un pittore che esprime in colori quello che sente nell’intimo dell’animo. Questi i suoi messaggi che si riassumono in uno solo, oggi tanto necessario: guardate, ammirate, amate la natura, così la rispettate.
Ponzi non si sarebbe mai lasciato scappare una lacrima, però, tutti quei quadri di macerie li intitolerei “il pianto su Fidenza”, di un uomo che è tornato nella sua città e l’ha trovata distrutta e piange sulla sua città. Dipingeva con gli occhi asciutti ma con le lacrime nel pennello. I suoi quadri sono tutti rimpianti e la ripetitività delle immagini denota il fatto che non si stancava mai di guardare le cose che amava, le cose che ricordava; non si stancava mai di ritrarle così com’erano. Le ripeteva come un amante continua a guardare la persona amata. Anche il cambio della prospettiva, della posizione, delle luci del giorno, delle stagioni, conferma questa stessa cosa. Non si stancava mai di contemplare l’oggetto amato, che sta nel cuore.
Ponzi, però, non pensava certo che le sue opere sarebbero diventate documenti. Lui faceva il pittore ed esprimeva il suo animo, voleva fissare un presente di dolore e non si accorgeva che intanto diventava una fonte di documentazione.
Sulla ricostruzione di Fidenza non l’ho mai sentito esprimere un pensiero deciso, ma siccome era fondamentalmente un conservatore, credo che anche tutte le demolizioni, le sbrecciature che – distruggendo ciò che la guerra aveva lasciato in piedi – hanno cambiato il volto della città, siano state per lui una sofferenza.
Aldo Aimi

Nessun commento:

Posta un commento