Pagine

giovedì 16 febbraio 2017

Carnevale nel Medioevo ed oltre


Il Carnevale e il sorriso nel Medioevo

Nel famoso romanzo di Umberto Eco “Il nome della rosa”, Guglielmo di Baskervill, interpretato nell’omonimo film da Sean Connery, arriva a capire che non è il Maligno a mietere vittime tra le mura di quell’abbazia ligure in cui è stato inviato come inquisitore, ma un libro creduto perso da tutti: si tratta del secondo libro della Poetica di Aristotile. L’anziano frate nasconde il libro perduto del filoso greco dedicato al “riso”.




Per proteggere il manoscritto da mani indiscrete Jorge lo aveva trattato con un veleno potentissimo, sapendo che chiunque ne fosse venuto in possesso lo avrebbe letto con foga ma così si sarebbe avvelenato da solo.

Il Filosofo greco, infatti, vi direbbe che la commedia e il riso sono fonte di conoscenza, una via di accesso alla verità. Ma ciò non è possibile - secondo quel monaco benedettino - perché il riso nasce dall’ubriachezza, dall’ignoranza e dal sovvertimento dell’ordine. Il riso è critica e ironia, è decostruzione. Esso è profondamente diabolico, perché cancella la paura, ed è sulla paura che si basa il timor di Dio e perciò la fede.  E se allora qualcuno avesse preso sul serio l’affermazione del filosofo greco e avesse cominciato a ridersi della verità, presto o tardi si sarebbe finito per ridersi di Dio. Quel libro era pericoloso per l’umanità.


Uno studio di Le Goff
Un importante studio di Le Goff sul medioevo, "Il rito, il tempo, il riso" è utile per mostrare il cambiamento della mentalità medievale all’origine della cultura moderna proprio facendo riferimento al mondo del gioco e del riso, sia nei conventi che nel mondo urbano e contadino.
In un primo momento, la Chiesa procede alquanto sospettosa. I Padri della Chiesa tendevano ad essere abbastanza critici verso le risate, e, soprattutto, verso quegli spettacoli (perlopiù pagani) che miravano a suscitarle.
Già all’epoca dei Padri, comunque, c’erano delle aperture: Girolamo, ad esempio (pur non amando affatto la gente ridanciana), evidenziava la differenza tra il riso volgare di un ubriacone e il riso “sano” e moderato che – ad esempio – viene usato dai maestri, per catturare l’attenzione dei loro giovani studenti.
Le prime regole monastiche sono tutte abbastanza rigide nel condannare il riso. La Regola del maestro (a metà del VI secolo, prima della Regola di San Benedetto) sottolinea come il corpo umano sia dotato di tre “filtri”: occhi, orecchie e bocche.
E così come gli occhi devono chiudersi di fronte a immagini impure, così come le orecchie devono rifiutarsi di ascoltare discorsi vani, così, allo stesso modo, la bocca non deve assolutamente lasciar filtrare all’esterno del corpo i discorsi sconvenienti… e le risate, “una delle peggiori lordure che possano sporcare la bocca di un monaco”.
Nel XII secolo cominciamo a trovare traccia di una rivalutazione del riso in senso positivo. Dopo un’eclisse di diversi secoli, nei testi dei teologi ricompare la distinzione tra le risate cattive (maligne e derisorie) e le risate buone (di colui che ride per gioia, magari perché colmo di beatitudine).
Già nell’Antico Testamento esisteva la distinzione (proprio a livello terminologico) fra queste due tipologie di riso. Nella Bibbia, sâkhaq è il riso buono, gioioso e sano (quello da cui deriva anche il nome di Isacco); lâag, invece, è il riso cattivo, di chi si prende gioco e denigra.
Anche il Greco ha questa distinzione: gelân è il riso buono, katagelân quello cattivo.
Il Latino invece no: il Latino conosce solo il risus, accomunando sotto un’unica parola il riso del bambino che scherza con la sua mamma e il riso assassino del serial killer che sta per ammazzare la sua vittima.
E sicuramente non è un caso che, proprio in quel periodo, il Medioevo abbia imparato a conoscere un nuovo, bellissimo, tipo di risata definita un termine fino ad allora poco usato: hilaritas.
Hilaris dator è il donatore sorridente, il benefattore che dona volentieri, spontaneamente, col sorriso sulle labbra: un sorriso che è il sorriso pacifico e amichevole di chi osserva il prossimo con benevolenza: persone che noi definiremmo gioiose, felici, ridenti, ma non ridanciane.
Chissà se era poi vero che nell’Alto Medioevo si riteneva che un buon cristiano non dovesse ridere mai e poi mai.
Le Goff, provando a rispondere a questa domanda, conclude, in sostanza, con un “mah. Chissà!.
L’impressione generale è che, nei tempi e nei modi giusti, i cristiani medievali (dopo aver cristianamente pregato, meditato e pianto)… fossero anche capaci di ridere e di divertirsi un sacco!


La pratica
Un antecedente del carnevale – come scrivevo in un precedente articolo - è stato rinvenuto nei Saturnalia romani (17-23 dicembre) feste dedicate al dio Saturno, che alternavano sacrifici beneauguranti a banchetti, giochi, libagioni e scambi di doni. Tali festeggiamenti, il più delle volte, sfociavano in eccessi, in cui era consentito persino lo scambio di ruoli indossando gli abiti altrui.
A Natale, accanto alle “pie” pratiche, si organizzavano banchetti, si giocava a dadi (distrazione condannata dai predicatori). In Francia, poi, i chierici di Saint-Pierre de Lilla, eleggevano una sorta di “vescovo dei folli” e poi si concedevano abbondanti bevute. Il 1° gennaio ci si travestiva e si folleggiava. I costumi preferiti erano quelli della giovenca e del cervo.
Ricordando la visita dei Magi al Bambino Gesù, si preparava poi una torta nella quale era inserita una fava: chi la trovava era il re della festa. I Concili della Chiesa romana si diedero da fare per sopprimere i bagordi: quello di Auxerre (573-603) proibì di travestirsi da cervo e di fare regali ‘diabolici’ (sic!); quello di Roma del 743 biasimò le feste di Bacco del 25 dicembre (Brumalia), ancora di moda.
Dopo varie condanne, anche le autorità ecclesiastiche presero ad accettare questo genere di festività, scorgendovi una valvola di sfogo all’esuberanza popolare.
Il Carnevale (festa il cui nome sembra derivare dal latino ‘carnem levare’, cioè ‘abolire la carne’) metteva fine ai bagordi, introducendo nella Quaresima che arrivava subito dopo e che per quaranta giorni imponeva preghiera e penitenza in preparazione della Pasqua.
Il Carnevale, con la sua carica irriverente, si caratterizzava come il momento del riso e della follia, dello scherzo, della materialità e dell’abbondanza. Era anche l’occasione per dissacrare l’autorità, almeno temporaneamente. Ecco perché questa festa era così amata dal popolo. Protetti dalla maschera, anche i più umili potevano per un momento dimenticare la loro condizione e diventare “altri”.
Il clero vedeva nel Carnevale un elemento potenziale di lascivia e di immoralità, come pure di sovversione. Provò a sopprimerlo, ma non vi riuscì mai.


E a Borgo?
Non abbiamo documenti circa il Carnevale e le feste a Borgo. Possiamo però supporre che i borghigiani, pur nella vita dura e faticosa di allora, amassero divertirsi in alcune occasioni come tutti gli altri.


Abbiamo, però, un documento interessante, cui accenna il Pincolini. La formella posta sopra la misura del trabucco, nella torre destra del Duomo (l’unica non simmetrica), rappresenta “il volo di Alessandro Magno”. Secondo un’antica leggenda, per poter vedere il suo regno dall’alto, il re macedone si servì di un cocchio (qui a forma di trono) trainato da due grifoni, stimolati con pezzi di carne posti su due lunghe lance. Si tratta di un bassorilievo presente in molte chiese di quell’epoca, per rappresentare il desiderio di Dio iscritto nel cuore di ogni uomo.
Il rilievo molto corroso era tradizionalmente interpretato a Borgo secondo una tradizione medievale come “la Berta che fila”. I rigonfiamenti in cima alle aste erano visti come gomitoli di lana e la figura in trono veniva letta come la figura della madre dell’imperatore Corrado, il cui nome era Berta.
Il Pincolini racconta che attorno a questo bassorilievo, nella viglia di San Donnino, i borghigiani “facevano pazze danze, schiamazzi, smorfie e grottesche forme di baldoria”. Davanti alla “Berta che fila”, dunque i borghigiani festeggiavano un Carnevale anticipato, quasi a prendersi gioco del tempo che inesorabilmente passa.  


Per concludere
Gioacchino da Fiore (morto nel 1202) ha avuto quasi sicuramente una grande influenza sul progetto della facciata del nostro Duomo. Il monaco calabrese aveva profetizzato “un tempo dello Spirito”, in cui soprattutto i monaci avrebbero riportato il Vangelo alla sua iniziale purezza. Molti credenti di allora videro in san Francesco la realizzazione di questa profezia.


Nell’abside interna della nostra cattedrale, il santo di Assisi è la grande figura affrescata alla destra del Cristo glorioso.
Con Francesco l’hilaritas acquistò un’importanza fondamentale. Egli la vide in un certo senso come un atto di fede (“Ci sarebbe ben poco da ridere, se Dio non fosse nato e morto per noi! Ma giacché Dio l’ha fatto, e io ci credo…”).
Addirittura, Francesco arrivò al punto di raccomandare ai suoi fratelli: “nelle tribolazioni, di fronte a coloro che vi tormentano, siate sempre hilari vultu”. Il riso (o, per meglio dire, questo riso, il riso buono) diventò insomma uno stile di vita, uno dei tanti modi con cui il cristiano può testimoniare al mondo la sua fede e la sua gioia per la Resurrezione. E da lì, grazie alla popolarità del carisma francescano, questa nuova concezione del riso e della gioia cristiana si diffuse a macchia d’olio, influenzando (per fortuna!) il pensiero successivo.


Nella tradizione
È inutile negarlo: nella storia c’è stata una frattura tra la volontà di felicità delle persone e il vissuto religioso. In particolare, è passato nella tradizione cristiana quel dualismo di origine greca e orientale che vedeva nel corpo e in tutto ciò che ha a che fare con il corpo – sessualità in primo piano – il male, semplicemente il male.
Ricordi di me fanciullo, mi rimandano ad esempio alle filippiche del mio parroco contro le ragazze che qualche volta all’anno andavano a ballare. E pensare che allora – anni cinquanta – erano accompagnate dalle madri che sorvegliavano a distanza le loro fanciulle. Non oso pensare cosa potrebbe dire quel prete - con molta più ragione - delle discoteche di oggi!
La mancanza di gioia era proprio la contestazione principale mossa da Friedrich Nietzsche, pensatore rappresentativo dell’uscita da Dio del mondo moderno. Egli, senza padre, è stato sicuramente influenzato dalla madre e dalla sorella, due persone tristissime e angosciate da cui non si è mai sentito amato e che però continuamente biascicavano preghiere davanti alla stufa di casa. Egli, rivolgendosi ai cristiani del suo tempo, scrisse: «Le vostre facce sono state per la vostra fede più dannose delle vostre ragioni».
Poiché il nostro futuro è dietro le nostre spalle, dopo 800 anni da Francesco d’Assisi, è arrivato per fortuna un altro Francesco, il Papa sorridente che ricorda continuamente che il cristianesimo cresce per attrazione e non per proselitismo.  
Egli ha posto il termine ‘gioia’ nelle sue Esortazioni apostoliche: Evangelii gaudium (in cui nei capitoli 4 e 5 presenta una rassegna degli inviti biblici alla gioia) e Amoris Laetitia.


È il Papa che continuamente sprona i credenti a mostrare che la fede cristiana è realizzazione dell’umano e non fuga da esso:

"Ci sono tanti cristiani con la faccia da funerale, la cui vita sembra un funerale continuo. Una volta ho detto che ci sono cristiani con la faccia da peperoncino in aceto: sempre con la faccia rossa e anche l’anima è così. E questo è brutto, perché si muovono meglio non nella luce della gioia, ma nelle ombre. Proprio come i pipistrelli, che riescono ad uscire soltanto nella notte ma alla luce del giorno non vedono niente. Possiamo dire che ci sono cristiani-pipistrelli".

Poiché la distanza più breve tra due persone è il sorriso, poiché la gioia è contagiosa e il sorriso è una curva che raddrizza tutto, Papa Francesco darebbe sicuramente ragione a Chopin quando affermò che «chi non ride mai non è una persona seria».
Fausto Negri

1 commento: