martedì 30 luglio 2024

Il beato Giovanni Buralli da Parma nella tela bussetana di Angelo Dal Verme

Tanti secoli, tanta letteratura, tanta arte, tanti Angeli celebrati come gerarchia celeste e come custodi dell’umano, nell’incessante negotium tra cielo e terra. A proposito del “frate angelicato” presso il convento dei Minori di Busseto, tra identità storica e “(de)-formazione iconografica.




Il beato Giovanni Buralli «cui angelus servivit ad missam» nella tela bussetana di Angelo Dal Verme (1779) 


Non è facile per chi si addentra nei corridoi e nelle stanze dell’antico Convento dei Frati Minori di Busseto (PR), oggi dei Missionari Identes, sottrarsi al fascino sottile di questa insolita raffigurazione sacerdotale del beato Giovanni Buralli (Parma 1208 – Camerino 1289), più noto col nome di Giovanni da Parma, ma forse più familiare agli studiosi del francescanesimo che non al grande pubblico dei fedeli. 
La tela (186x111), datata 1779, e ritenuta tra le migliori opere del fidentino Angelo Carlo Dal Verme (Borgo San Donnino 1748-1825), ritrae il beato parmense nell’atto di celebrare la Santa Messa, assistito da un misterioso personaggio, presentato col sembiante d’un frate con le ali, inginocchiato sul gradino dell’altare, mentre in cielo volteggiano gioiosi angioletti che reggono un lungo cartiglio.

La sconcertante presenza d’un “frate angelicato”, con bianche e solide ali piumate che fanno pensare al personaggio d’ una Sacra Rappresentazione, si riferisce, in realtà, ad un episodio miracoloso, noto alle fonti francescane, tra cui la Cronica di Salimbene de Adam, che narra come tutte le mattine, «al primo schiarire del cielo», frate Giovanni era solito chiamare a servirgli messa «scolarem suum».

Un giorno che questi si addormentò, il suo posto accanto all’altare fu preso da un  angelo che servì devotamente frate Giovanni senza però lasciar trasparire la propria identità di inviato celeste. L’intervento dell’angelo venne alla fine riconosciuto, destando ovviamente grande sconcerto tra i frati, ma non in frate Giovanni che perdonò il negligente discepolo, sentenziando: 
«Credevo che fossi tu. In ogni modo, chiunque fosse, sia egli benedetto! E benedetto sia il nostro Creatore in tutti i suoi doni!».
Il dipinto, nel riprendere l’immagine incisa già da Sebastiano Zamboni, nel 1777, situa l’apparizione angelica tra le colonne del santuario d’ una grande chiesa, anziché tra le rustiche mura dell’eremo di Greccio, dove secondo le antiche cronache francescane il miracolo sarebbe avvenuto; all’enfasi architettonica tipicamente settecentesca si accompagna una puntuale descrizione dei paramenti e delle suppellettili liturgiche, fino a definire ogni minimo gesto rituale del celebrante, che, assorto nella contemplazione dei sacri misteri, si china sull’altare per prendere con la mano sinistra le due parti dell’Ostia e la patena, mentre con la destra si batte il petto, ripetendo le parole di fede del centurione: Domine non sum dignus ut intres….

Alla comunione del Buralli, rappresentato con un’intensità veramente toccante, corrisponde l’atteggiamento non meno fervoroso dell’angelo: un angelo-adulto che in abito francescano ha assunto i tratti soavi e la fronte ampia e stempiata di un dotto religioso; di fronte al divino sacramento questo misterioso essere alato non osa alzare lo sguardo e manifesta il suo stupore eucaristico additando l’ostia consacrata e le nuvole d’incenso che escono dal braciere, simbolo della preghiera dei fedeli cristiani che, come scrive san Paolo, spande nel mondo il profumo di Cristo che si è offerto al Padre “in sacrificio di soave odore”.

A questo punto, vale la pena di raccogliere la tradizione orale riferita da Dario Soresina, secondo la quale, nella figura dell’angelo «sembra doversi riconoscere il beato Angelo Clavascio», da identificare molto probabilmente con Angelo Carletti di Chivasso (Chivasso 1411- Cuneo1495), frate minore osservante, teologo, moralista, tra i promotori della costituzione dei monti di pietà a favore dei più poveri (Savona, 1479; Genova, 1483).

In realtà, l’ipotesi non appare del tutto infondata : il volto del “frate alato” - reso con notevole realismo, quasi una sorta di ritratto - sembra riflettere i lineamenti caratteristici del beato piemontese, rappresentato nella seicentesca pala dell’altare del Santuario di Santa Maria degli Angeli di Cuneo ed in una stampa del 1753; inoltre, a corroborare tale identificazione potrebbe essere anche il nome stesso di Angelo o Angelico adottato da Antonio Carletti e il titolo della sua opera più importante la Summa Angelica de casibus conscientiae da lui stesso chiamata Summa Angelica: un corposo trattato di teologia morale ad uso dei confessori, definito da Martin Lutero summa diabolica (angelica, plus quam diabolica), uno di quei libri dati alle fiamme nel 1520 nella piazza di Wittemberg assieme alla bolla di scomunica, al Codice di Diritto Canonico e alla Summa teologica di Tommaso d’Aquino.

Destinata alla chiesa di Santa Maria degli Angeli di Busseto, ove fino al secolo scorso esisteva un altare dedicato al Buralli, la piccola pala ripropone, con la minuta grafia del Dal Verme, la complessa e affascinante figura del frate parmense quale perfetto esempio di vita ascetica, non diversamente dall’ immagine “liturgico-sacerdotale” del frate cappuccino san Lorenzo da Brindisi, dipinta dieci anni prima da Antonio Bresciani (1765) per i Cappuccini di Fidenza.

Ma la problematica vicenda di Giovanni da Parma, che si identifica con i tormentosi esordi dell’ordine francescano lacerato dalle divisioni tra “spirituali” e “conventuali”, riaffiora tuttavia attraverso gli attributi del libro aperto e del cappello cardinalizio, entrambi visibili in basso a destra, abbandonati sul pavimento della chiesa.

Sulle pagine del libro, alcune scritte di non facile lettura alludono palesemente agli scritti (forse il suo Ordinationes divini officii che costituisce il primo cerimoniale dell’Ordine) e al ruolo esercitato da frate Giovanni al vertice dell’Ordine minoritico, come settimo successore di san Francesco: al suo ostinato rifiuto della porpora, che gli era stata offerta da ben due pontefici, rimanda invece il cappello cardinalizio che diventa, pertanto, simbolo di grande umiltà.

Ricordato dalle fonti francescane come instancabile predicatore che sapeva parlare al popolo e al clero commuovendoli fino alle lacrime, dopo gli studi e l’insegnamento esercitato nelle prestigiose università di Bologna, Napoli e di Parigi, Giovanni da Parma viene eletto nel 1247 Ministro generale dell’Ordine dei Minori; ambasciatore a Costantinopoli per ricomporre l’unità della Chiesa (“angelo di pace” lo definì Innocenzo IV), fu consigliere di quattro Papi ma per le sue tendenze rigoriste e filo gioachimite e forse in seguito alla drammatica avventura di frate Gerardo da Borgo San Donnino (l’autore del Liber Introductorius ad evangelium aeternum, processato a Parigi, dove morì prigioniero nel 1258), di cui era amico e rotettore, fu indotto a dimettersi da ministro generale: santo inquisito da inquisitore santo, com’è stato scritto, il Buralli venne probabilmente “processato” dal suo stesso successore san Bonaventura.

Si ritirò nell’eremo di Greccio dove visse trent’anni in preghiera e penitenza, rinunciando alla porpora cardinalizia che gli era stata offerta da papa Giovanni XXI e poi da papa Niccolò III. Morì nel 1289 a Camerino, che ne conserva tuttora le reliquie, mentre si apprestava a recarsi nuovamente in Grecia per la riconciliazione con la chiesa. La sua festa liturgica è fissata al 20 marzo.

Salimbene ci fornisce questo gustoso ritratto che sembra sostanzialmente coincidere con l’appassionata immagine ricostruita da Dal Verme:
«Era di media statura, tendente più al basso che all’alto, d’aspetto gradevole ma ben proporzionato, sano e forte a sostenere le fatiche tanto dei viaggi quanto dello studio, vultum habebat angelicum et gratiosum et sempre iucundum, ed erat largus, liberalis, curialis, caritativus, humilis, mansuetus, benignus et patiens.[…]. Era specchio ed esempio per tutti coloro che lo vedevano, perché tutta la sua vita era piena di onestà e santità, e di costumi buoni e perfetti. Era gradito a Dio e agli uomini».
Per altro verso, si ha netta l’impressione che le ali di quell’angelo col saio francescano, che serve messa al beato Buralli, volino ben oltre le mura del convento bussetano, a fronte d’una scelta iconografica quanto meno irrituale che assegna ad un “ministrante angelicato” il volto rubicondo e la calvizie d’un attempato frate francescano, invece dei tratti fanciulleschi, tra putti e amorini, che solitamente codificano la scenografia angelica.


Di certo, siamo ben distanti dalle apparizioni bibliche e della prima tradizione cristiana dove l’angelo è concepito come emanazione di Dio, appartenente alle gerarchie celesti, figura profetica o di annunciazione o di lotta e liberazione contro Satana, come del resto ce lo consegna ancora il concerto del paradiso dantesco. Ma è soprattutto tra Cinque e Seicento, tra il Catechismo di Pio V (1566) e la festa degli angeli custodi di Clemente X (1670) che assistiamo alla nuova apparizione di questa figura la quale sempre più si mescola col negotium hominum, incarna tutti i ruoli, sovviene a tutti i bisogni, è l’amico vero, come viene definito nel panegirico di Paolo Segneri (1664), uno dei testi fondativi di questa trasformazione umanizzata e affettiva dell’angelo: si fa medico, chirurgo, cameriere, corriere bifolco, marinaio, cuciniere, becchino…e, soprattutto, serve, serve umilmente, «vil fante domestico».

L’angelus novus di Dal Verme sembra, dunque, doversi leggere più come angelo della custodia del Buralli che come epifania del divino: interviene per l’amico in «qualunque affare, sia splendido o sia negletto» e si fa umile ministrante durante lo svolgimento del rito sacro; distante dalla fredda apoteosi al di sopra del celebrante, è posto in basso, quasi in familiarità e consuetudine col sacerdote officiante: assistente-protettore, appare col sembiante d’un confratello dello stesso ordine religioso, lontano, sì, nel tempo, ma percepito molto vicino poiché da poco assurto all’onore degli altari (1753).

Se le cose stanno così, allora non si può neanche escludere, un altro elemento che potrebbe concorrere, almeno come sottotesto, ad illuminare meglio la presenza “angelicata” del beato Clavascio nella messa bussetana dipinta da Angelo Dal Verme: la popolarità del francescanesimo minorita, nel suo ruolo «d’ispiratore et animo», anche a Busseto, del monte di pietà, (1537) per «sovvenire a poveri e bisognosi».

In ogni caso, non più angeli convenzionali come «Amoretti canori in aria stesi», ma angeli ordinari, miti servitori del vissuto: angeli necessari che, con naturalezza sovrannaturale, si chinano “pietosi” sul quotidiano, in una nuova alleanza tra divino e umano.

Guglielmo Ponzi

Pubblicato in «Il Risveglio», Settimanale della Diocesi e città di Fidenza, 18 novembre 2009, riveduto il 15 giugno 2024.

Questo articolo è pubblicato alla pagina BEATO GIOVANNI BURALLI di Academia Edu e può essere liberamente scaricato in formato PDF




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