Il tardivo riconoscimento non ha tuttavia rappresentato un momento unitario che superasse le divisioni che si erano radicate durante la guerra civile e la successiva guerra fredda.
Settant'anni sono passati senza che l'Italia e gli italiani abbiano saputo guardare a quei momenti senza pregiudizi di parte.
Verso la tragedia di quei giorni si è formata una platea di "giustificazionisti", per chiudere gli occhi.
Un paese carico di storia che ha paura della memoria, forse è questo che siamo.
Il treno procedeva lento. Partimmo da Fiume, destinazione: la Toscana. Dovevamo attraversare l’Italia che noi immaginavamo generosa e ospitale. Sulle carrozze da carro bestiame che ci portavano laggiù, c’erano per lo più vecchi, donne e bambini come me, stipati come sardine. Eravamo infreddoliti, affamati, i più piccoli piangevano perché man-cava il latte. «Va bene» pensai «prima o poi ci fermeremo». La prima sosta, per scendere a sgranchirci le gambe e mangiare qualcosa, fu a Bologna. Finalmente la stazione.
Il treno rallentò piano piano fino a fermarsi. Ad accoglierci trovammo tanta gente, con le bandiere rosse. Le stesse di Tito. Non capivo. Allora mi girai verso la mamma e le chiesi: «Mamma, ma il treno si è sbagliato? Siamo tornati a Fiume?». No. Erano gli operai e i ferrovieri comunisti che improvvisavano uno sciopero per impedire al convoglio di fermarsi nella loro città. «Fascisti, viaaa!» gridavano. «Siete tutti criminali fascisti!» La nostra patria era affamata, diffidente. Diversi erano convinti che chi fuggiva dall’Istria «rossa», dal paradiso del comunismo, fosse un criminale. Alle dame di carità, arrivate in stazione per darci latte e coperte, fu impedito di avvicinarsi. Nemmeno il latte ai bambini. Le porte del treno rimasero chiuse. Non so neanche quante ore passarono, il viaggio mi parve infinito.
Settant'anni sono passati senza che l'Italia e gli italiani abbiano saputo guardare a quei momenti senza pregiudizi di parte.
Verso la tragedia di quei giorni si è formata una platea di "giustificazionisti", per chiudere gli occhi.
Un paese carico di storia che ha paura della memoria, forse è questo che siamo.
Il treno rallentò piano piano fino a fermarsi. Ad accoglierci trovammo tanta gente, con le bandiere rosse. Le stesse di Tito. Non capivo. Allora mi girai verso la mamma e le chiesi: «Mamma, ma il treno si è sbagliato? Siamo tornati a Fiume?». No. Erano gli operai e i ferrovieri comunisti che improvvisavano uno sciopero per impedire al convoglio di fermarsi nella loro città. «Fascisti, viaaa!» gridavano. «Siete tutti criminali fascisti!» La nostra patria era affamata, diffidente. Diversi erano convinti che chi fuggiva dall’Istria «rossa», dal paradiso del comunismo, fosse un criminale. Alle dame di carità, arrivate in stazione per darci latte e coperte, fu impedito di avvicinarsi. Nemmeno il latte ai bambini. Le porte del treno rimasero chiuse. Non so neanche quante ore passarono, il viaggio mi parve infinito.
Ad una megafesta da ballo, in un'arena, piena zeppa di giovani, a Fiume, anno 1969, parecchi ragazzi della mia età, sui 20-25 anni, ancora si divertivano a ripetermi che "taliani buoni tuti solo a rosto", e che "Trieste no se chiama così, ma Trst". Qualche anno dopo, un'affittacamere di La Spezia, mi aveva raccontato che loro istriani, lì, erano stati accolti a muso storto dai trinariciuti locali.
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