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sabato 18 marzo 2017

Testimonianza di Enrico Vanzini, numero 123343 baracca 8, Dachau

Il Gruppo Scout Fidenza 2, con la collaborazione e il patrocinio del Comune di Fidenza, ha organizzato un importante e singolare momento di riflessione attraverso la testimonianza diretta di Enrico Vanzini, l’ultimo Sonderkommando italiano a Dachau ancora vivente.
L'incontro, che si è tenuto nella mattinata di sabato 18 marzo nel Teatro Magnani di Fidenza, continua il percorso intrapreso negli anni scorsi dagli scout fidentini, percorso di conoscenza e sensibilizzazione dei giovani e della cittadinanza nei confronti della Shoah e di quanto avvenuto nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. 
Ad ascoltare la testimonianza di ‘nonno Enrico’, come lui stesso ama definirsi quando parla ad una platea giovane, erano presenti anche tre classi della Scuola Zani e diversi studenti delle scuole superiori con i loro insegnanti.
Di Amedeo Tosi l'articolo che sotto vi proponiamo.


Testimonianza Enrico Vanzini


“Subito dopo la firma dell'armistizio dell'8 settembre 1943 i tedeschi da alleati divennero nemici. In poche ore accerchiarono la nostra divisione dell'esercito italiano che si trovava in Grecia: i loro ufficiali ci chiesero di giurare fedeltà all'esercito tedesco e di passare con loro. Non potevo accettare di combattere contro i miei fratelli connazionali e dissi: “io mai”. Fu così che venni inviato ai campi di lavoro in Germania”.
E' iniziata con queste parole la fortissima e sconvolgente testimonianza di Enrico Vanzini, classe 1922, che si è svolta sabato 18 marzo a Fidenza grazie all'iniziativa del Gruppo Scuot Fidenza 2 ed in particolare di Michele Scaramuzza. 
Davanti al Sindaco Andrea Massari, al vice Sindaco Giancarlo Castellani e luogotenente Paolo Gerali comandante la stazione Carabinieri di Fidenza e ad un Teatro Magnani gremito di studenti delle scuole cittadine che hanno così ascoltato l'odissea in cui era caduta l'umanità grazie alle parole dell'ultimo “Sonderkommando” italiano che per sette mesi fu internato nel campo di Dachau.
Gli studenti per oltre due ore hanno ascoltato attenti ed in silenzio “nonno Enrico” - come familiarmente vuole essere chiamato, la sua drammatica e tremenda esperienza di vita che per sessant'anni non ha mai raccontato a nessuno, inclusi la moglie ed i figli. 
Un silenzio che si è interrotto solo nel 2005, grazie ad un’infermiera: “perché soprattutto i giovani sappiano cosa è successo in quegli anni e come è labile il confine che separa l'umanità dalla ferocia”.  
Nel suo racconto in tanti passaggi è emersa la sua incrollabile fede che per tutta la vita lo ha accompagnato senza fargli mai perdere la speranza. A Buchenwal dopo essere stato accusato ingiustamente di sabotaggio, e quindi condannato a morte, davanti al plotone di esecuzione incoraggia gli altri tre compagni: “dall'alto c'è qualcuno che ci protegge”. 
Pochi secondi dopo venne graziato ed inviato al campo di concentramento di Dachau.
“Venni marchiato con il fuoco – ha proseguito il suo racconto Enrico Vanzini –  con il numero 123343 e destinato alla baracca numero 8, dove stavamo ammassati in 130 persone. Era la fine di ottobre del 1944. C'era già molto freddo e li non c'era niente per scaldarci così dormivamo abbracciati sfruttando il calore del corpo. Una mattina mi svegliai e mi accorsi che il mio vicino era morto. La morte era una normalità a Dachau. Così come la disperazione: molti si suicidavano aggrappandosi alla recinzione del campo attraversata dall'alta tensione. La violenza e la brutalità da parte dei tedeschi che gestivano il campo era normale: bastava uno sguardo fuori posto, una titubanza in una risposta, non riconoscere prontamente quando venivi chiamato in tedesco con il tuo numero di riconoscimento per essere frustati brutalmente, azzannati dai cani o uccisi con un colpo di pistola alla tempia o una mitragliata. Nel campo la morte era la quotidianità, un incubo con cui si era costretti a convivere. Venni destinato al nucleo dei “sordekommando”  un'unità di internati destinati ad occuparsi di lavori disumani e  indegni: raccogliere i cadaveri nelle camere a gas per poi portarli nei forni crematori. Caricavo corpi senza vita sui carretti per poi recuperarne i resti carbonizzati”.
La fede di Enrico emerge ancora nel corso della sua testimonianza: “Mi ammalai improvvisamente, avevo pustole su tutto il corpo e stavo malissimo. Venni destinato all'infermeria dove i due giovani medici si presero cura di me non con delle medicine ma frustandomi. 
Nudo, con la schiena insanguinata mi buttai sulla neve. Un giovane russo che lavorava alla mensa ufficiali si prese cura di me. Non so come riuscisse a trovare sia l'alcol e il cotone che ogni sera usava per medicarmi le ferite e le pustole che il pane che mi dava da mangiare e che rappresentava un dono grandissimo visto che il cibo era praticamente inesistente. 
Dopo una settimana non lo vidi più. Ho pregato tanto e prego ancora oggi per lui e per il bene che mi aveva fatto. Nel mio lavoro ai forni, durato circa 15 giorni, portavo quotidianamente più di 250 persone uccise nelle camere a gas. Pregavo molto e chiedevo al Signore la forza di resistere a questo calvario, a questa follia. Il momento peggiore dell'abisso fu quando venni destinato al bunker dove avvenivano gli esperimenti medici. Raccoglievo sacchi di iuta con parti di cadaveri da bruciare nei forni. Ormai ero allo stremo credevo di non farcela più. Una mattina mi chiamarono per uscire dal campo e sotto scorta recarmi ad una fattoria vicina per  portare  della verdura alla mensa ufficiali. Una contadina tedesca mi vede e capisce che stavo molto male e che non mangiavo da tempo. Mi sorride, si avvicina, mi chiede se sono italiano e mi offre del pane. Sapevo che i tedeschi che ci scortavano se mi avessero visto prendere qualcosa mi avrebbero ucciso. Feci segno di no con la testa ma la donna mi sorride e mi porge un pezzo di pane nero che prendo e metto velocemente sotto il cappello. Il tedesco intuisce qualcosa e spara una raffica di mitra alla donna uccidendola. Piansi tutto il giorno. Quel pezzo di pane non l'ho mai mangiato. Pochi giorni dopo il 29 aprile gli americani liberano il campo e così sono potuto tornare a casa. Dopo oltre quattro anni rividi i miei genitori. Ero partito che pesavo 87 chili ero tornato che ne pesavo 29. Mia madre non mi aveva riconosciuto. Non credeva che ero io. Dovetti raccontarle un episodio del giorno della mia partenza per convincerla: lei in lacrime mi disse: “vieni abbracciami e perdonami”. 
Le diedi il pezzo di pane nero che mi aveva dato la ragazza tedesca e assieme lo portammo in Chiesa per donarlo alla Madonna come ringraziamento”.
Bellissimo e pieno di speranza il saluto finale ai giovani fidentini: “ragazzi oggi dopo tanti anni mi sento di dirvi di non pensare mai che il vostro futuro posso anche solo tollerare la violenza e la guerra. Pensate invece a studiare, a rispettarvi e a fare del bene perché solo così costruite il vostro futuro. Per questo il primo augurio che vi faccio è quello di essere promossi e sempre felici”.

Amedeo Tosi


 Michele Scaramuzza, referente Gruppo Scout Fidenza 2, ha introdotto
l'incontro, lasciando poi la parola al Sindaco di Fidenza Andrea Massari
Non retorico né di circostanza l'intervento del Sindaco Massari, efficace
nei richiamo al presente e nei riferimenti a luoghi vicini a noi.  
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