sabato 15 febbraio 2025

LUTERO NELLA CITTA’ DI BUSSETO

Nuova ipotesi di lettura per un sonetto cinquecentesco

di fra Giovanni Antonio Majavacca.


The intolerable wrestle with words and meanings : così, nei Four Quartets, Thomas S. Eliot evoca «l’insopportabile lotta» che il poeta deve affrontare «con parole e significati»[1], una lotta che si trasforma in una lunga guerra, talora anche irrisolta, per filologi ed esegeti o semplici lettori che intendono interpretare un testo, soprattutto se è saltata l’identità di codice tra emittente e destinatario. Se poi si tratta di scritti polemici dove, volentieri, si rincorre l’epiteto ingiurioso ad effetto, è facile che l’autore, per potenziare l’impatto comunicativo, ecceda in esuberanza immaginifica tanto da risolvere la densità allusiva in un parlare astruso, talora anche bizzarro, impervio ad una decodifica sicura e condivisa. 

Anzi, il più delle volte, capita  che il lettore riesca a percepire con certezza soltanto il senso complessivo del testo, senza arrivare, però, a decifrare appieno il significato dell’ambiguità espressiva ricercata da chi scrive ; a ciò si deve, inoltre, aggiungere la nequitia temporum che, spesso, travolge la possibilità d’un’adeguata analisi comparativa e diacronica sia con la produzione dell’autore sia con le testimonianze esterne.

  E’ proprio il caso di questo sonetto contro Lutero, unico superstite testo letterario dell’intera opera, prevalentemente omiletico-devozionale, di fra Giovanni Antonio Majavacca da Busseto, pure essa sostanzialmente deperdita[2].  

 

Nato da famiglia notabile della capitale del marchesato pallaviciniano, alla fine del XV sec., sotto la signoria di Galeazzo I e dei suoi fratelli (1486-1521), Alessandro VI pontifice sedente (1492-1503), entrò nell’ordine dei frati minori di S. Francesco di Busseto, dove, non molto tempo prima, la munificenza dei signori del luogo aveva eretto la chiesa di Santa Maria degli Angeli con l’annesso convento (1474): qui, presumibilmente, dopo un anno di noviziato e sei anni di filosofia e teologia, venne ordinato sacerdote, segnalandosi, poi, nel tempo del guardianato, quale istitutore del Monte di Pietà (1537)[3] ed “ispiratore teologico” di Michelangelo Anselmi per il ciclo pittorico Padri e Dottori della Chiesa nella Cappella della Concezione presso la chiesa Collegiata di San Bartolomeo apostolo (1538-39)[4].

Tuttavia, già allora, oltreché «per la molta pietà» e le «scienze teologiche», si distingueva, in modo particolare, per «la grave facondia» che lo avrebbe reso predicatore famoso in molte città d’Italia, dove fu anche fondatore delle congregazioni per le Quarantore[5]: fino a diventare, sotto Paolo IV, Concionator pontificis «con ammirazione universale», in seguito, pure annoverato da Pio IV tra i «Reggitori» del Concilio di Trento. Muore a Venezia, ultima città del suo ministero apostolico, nella seconda metà del XVI sec. (1572/73), «dal popolo e dal Serenissimo Senato reputato santissimo»[6].

Ma la prima volta letteraria del minorita bussetano è il sonetto accompagnatorio dell’Opera utilissima uulgare contra le pernitiosissime heresie Lutherane per li simplici di Fra Giovanni Pili da Fano (1469-1539), la quale, secondo l’intestazione della prima carta, viene pure citata col titolo di Opera utilissima uulgare chiamata incendio de zizanie lutherane, cioè contra la pernitiosissima heresia di Martin Lutero.

Stampato a Bologna, nel 1532, da Giovanni Battista Faello, nel mese di settembre, questo volumetto [7] è impreziosito da una  raffinata xilografia narrativa che sembra alludere, nel trionfo verticale con strumenti musicali, alla “sarabanda” delle eresie; esse, in un babelico intreccio di voci, seducono, confondono ed opprimono «li simplici», adombrati nelle figure stilizzate della parte bassa del frontespizio cui corrispondono, nella parta alta, due suonatori di corno i quali hanno tutta l’aria di fuoruscire da una caricatura di Lutero sovrastato da una figura mostruosa in cocolla[8].

Ora, anche se appare abbastanza complesso fornire «un’identificazione univoca» degli strumenti silografati dall’incisore, per essere «spesso appena abbozzati e ornati con nastri che ne confondono e deformano i particolari in stile grottesca», non è, tuttavia, superfluo tentarne la decrittazione se non altro per il messaggio veicolato già in limine libri. E così si configurano «nella colonna di sinistra, dall’alto: tamburo, corno (serpentone?), flauto di Pan, liuto, viella, cornetti (dulciane?), organo portativo; in quella di destra, dall’alto: tamburello, triangolo, cimbali (sonagli?), viola (?), arpa, trombe naturali, salterio (virginale ? spinetta ?)».[9] Insomma, un’ouverture che il lettore percepisce subito come correlativo oggettivo dello “stordimento spirituale” provocato nei credenti dall’ambiguità contraddittoria, diciamo pure dalla “polifonia cacofonica” delle «zizanie lutherane», e che l’autore colla sua «operetta» si propone di smascherare. 

Un libretto, quello di Giovanni da Fano[10], che, al di là del carattere compilativo[11], spicca, nel panorama delle pubblicazioni controversistiche della prima metà del Cinquecento, quale testo eccezionalmente composto in lingua volgare italiana e non in latino, «per utilità de li idioti, et semplici che non intendono el litterale, acciò da li excomunicati heretici ingannar non si lassino, ma ne la sancta fede stabili et fermi permangano»[12] : una scelta, dunque, di accorta strategia comunicativa, sulle orme di quella luterana[13] , in netta contro tendenza con quella cattolica, chiusa nel sospetto che ogni citazione (volgarizzata) di Lutero veicolasse maggior credito alla sua eresia.

Così, il frate marchigiano scioglie, con linguaggio infuocato, le “tesi” più sensibili[14] del riformatore tedesco; e lo fa, contrapponendo puntualmente “verità ed “errore”, attraverso una sorta di procedimento ipertestuale che ha sullo sfondo la parabola evangelica del grano e della zizzania (Mt. 13): « Et nota che dove trovarai queste parole, bono seme , per quelle intende la vera catholica dottrina. Dove trovarai zizania de falsità, intende la falsa opinione de li heretici.

Et dove trovarai fuoco di verità, intende la vera confutazione delle heresie», mentre per «questo homo», intende messer Jesu Christo, el quale seminò nel campo de la santa ghiesia el buon seme […]» e «l’homo inimico, cioè el demonio, per le man de li soi servi eresiarchi, ha seminato la zizania de molte heresie.

Tra li quali, in questi novissimi tempi Martin Luthero, quasi tutte le zizanie et heresie da li servi fedeli di messer Jesù Christo abrusate, ha nel campo della santa chiesia de novo seminato»[15].

Non è un caso, allora, se l’opera di Giovanni da Fano, dopo un omaggio di maniera in lingua latina, abbastanza scontato, rivolto all’autore da fra Francesco da Gandino (Fratris Francisci de Gandino Authori deditissimi, Erasticon[16]), si apre con un componimento poetico in volgare, scritto da «Fra Giovan Antonio Maiavacca da Busset/to», che si configura , secondo la didascalia incipitaria, probabilmente non opera dell’autore, come appello «alli Lettori contra Marthin Luth.»;[17]e, qui, s’intuisce subito che non si tratta più, né per il Majavacca né per il Pili, d’un confronto dottrinale tra posizioni teologiche divergenti, ma d’uno scontro aprioristico tra Bene e Male, cioè tra Dio e Satana, la cui antonomastica incarnazione è l’eretico:  


         

          Presentiamo la trascrizione del sonetto bussetano, già definito da Laura Bellucci «impenetrabile crittogramma e quasi rebus di assai ardua soluzione»[18]:                   

 

 In realtà, il lettore contemporaneo rimane, subito, frastornato dalla forte dissonanza tra semplicità del messaggio e preziosità dell’intarsio lessicale in cui è avvolto il testo, talora financo inaccessibile, sicché si prova uno strano senso di “spaesamento linguistico”, forse non molto lontano da quello avvertito dall’uomo “illitterato” del Cinquecento cui si rivolge l’operetta del Pili, se l’autore fanese, invece del volgare, avesse adottato, per la sua composizione, il latino come lingua veicolare.

Basterà, al riguardo, discutere qualche prelievo lessicale, dove più arcani risultano i latinismi o i grecismi recuperati dall’autore: pèrcito (v. 3), participio passato dal verbo percīre «scuotere, sospingere» ; in particolare, percitus è d’uso abbastanza comune in latino nel senso di “agitato”, “eccitato” , come appunto nel nostro caso, dove il sintagma «di furor pèrcito» sembra essere un calco di Seneca, Herc. 109: magno furore percitus («acceso da grande furore»), e andàbati (v. 13) , qui usato come aggettivo costruito sul sostantivo “gladiatorio” andabata-ae che designava una particolare categoria di combattenti con armatura ad elmo chiuso tanto da «precludere ogni controllo dei movimenti»: l’esito era un «duello grottesco[…], particolarmente divertente per il pubblico», ma «decisamente scadente» sul piano della tecnica duellatoria[19]. L’idea metaforica che ne sorge è, dunque, quella della “cecità” o di movimento alla cieca, tanto che nella retorica antica, ad esempio, il termine «gladiatore» viene spesso usato come metafora per «declamatore violento», proprio perché mena fendenti alla cieca, cioè senza calcolo, misura o adeguata riflessione[20].

Ma a voler rimanere sul piano più strettamente religioso, non si può fare a meno di citare San Girolamo, il quale, più volte, utilizzerà la figura dell’andàbata come termine di paragone dell’inutile affanno di chi non ha un obiettivo visibile ed una conoscenza precisa della materia del contendere[21]. Così, gli «andàbati argomenti» del testo bussetano rimandano all’argomentare cieco, avvolto nelle tenebre, ma anche aggressivo, impetuoso, privo di fondamento che gli eretici opponevano all’ortodossia cattolica.

A questi aspri prestiti latini (tralasciando, virga, insania, blandizie, mollizie… di più facile intelligibilità) se ne aggiungono altri, non meno irti, tratti dalla lingua greca, come «ofitaica» (v.4) e «catafrigi» (v.6) : due termini con cui l’autore ci conduce tra le eresie del cristianesimo del II secolo, in ideale collegamento tra “errori” antichi e nuovi. 

Nello specifico, l’aggettivo ofitaica («ofitica») rimanda alla tradizione gnostica degli Ofiti (gr. ὄφις/ophis : "serpente”) o dei Naasseni (ebr. nâhâsh: "serpente") i quali, riqualificando positivamente la figura del Serpente, «simbolo e dispensatore di conoscenza», lo assimilavano a Cristo, rigeneratore dell’umanità[22]; per altro verso, i catafrigi (gr. ὃι κατά Φρῦγας/hoi katà Phrygas) , cioè “quelli tra i frigiani” , conosciuti poi anche col nome di montanisti e pepuziani, erano eretici che rivendicavano, oltre al forte rigore etico, «un’autorità autonoma rispetto alle scritture, tanto più alle autorità ecclesiastiche»[23]. Ne consegue che il Majavacca non sembra usare questi tecnoletti quale generica sinonimia di «eretici»[24], bensì alludere, sprezzante, alla Riforma come moderna “gnosi serpentesca”, che sovverte l’interpretazione tradizionale della scrittura, la concezione soteriologica (fides qua vs fides quae), l’autorità disciplinare della Chiesa.

Ma gli scogli massicci contro cui va a sbattere la “piccioletta barca” del lettore non sono tanto gli aggettivi «erraica» (v. 5) o «nottaica» (v. 8) riconducibili alle voci romanze nottare/ notticare (andare nella notte, fare o tramare nella notte…) ed errare, probabilmente dovute, come il già citato ofitaica, al trascinamento innescato da mosaica del primo verso, quanto piuttosto tre “capricci” lessicali, «artotèrcito» (v. 6) «gnostèrcito» (v. 7) e «nemie» (v. 13) che mettono a dura prova ogni più acuminato scavo etimologico, con la conseguente impraticabilità d’una sicura interpretazione semantica.

E che facile non fosse disserrare questi lemmi, se ne accorge subito anche Laura Bellucci, la quale, dopo aver letto, con tutte le “forzature” e le “illusioni” del caso, il primo vocabolo come «mostro del Nord» ed il secondo come «mostro di Cnosso», deve ammettere che «le prove mancano, o, almeno non sono del tutto fondate sul piano etimologico e semantico», benché motivate dal contesto;[25]per il terzo, invece, non può fare a meno di ricorrere all’emendamento del testo: questione su cui torneremo più avanti.

 C’è, poi, un altro (in)gorgo da cui il lettore viene subito risucchiato, non appena tenti di dare un nome al personaggio nascosto dietro l’appellativo con cui viene presentato: a chi vuole alludere l’autore del sonetto con quel suo “polifilesco” artotèrcito e gnostèrcito

Ora, se è indubbio che nella polemica cinquecentesca dei primi controversisti cattolici ricorre, assai spesso, l’immagine di Lutero- mostro[26], confessiamo, tuttavia, di non riuscire proprio a trovare una spiegazione convincente in questo senso all’audacia creativa del frate bussetano, a meno che non si voglia “estorcere” il testo con le ragioni del contesto.

    Pare, invece, più plausibile leggere artotèrcito come combinazione di tre morfemi che muovono la parola in tutt’altra direzione: arto-(gr. ἄρτος/artos = pane, focaccia, cibo) + ter- (lat. terĕre = triturare, logorare, consumare) + cito (suffisso),[27] allo stesso modo di gnostèrcito che sembra poggiare sull’associazione di gnos (gr. γνϖσις /gnosis = conoscenza, saggezza, sapienza) + ter- (lat. terĕre = triturare, logorare, consumare)  + cito (suffisso): due neologismi sincratici, quelli escogitati dal Majavacca, effimeri quanto il sonetto che li ospita, la cui suffissazione altro non è che una «neoformazione occasionale» alla ricerca della rima con essercito (v. 2) , in un rapporto semantico «casuale o arbitrario» col resto della formula, determinato esclusivamente da legami fonici.[28]   

    Orbene, se la nostra lettura è corretta, il termine artotèrtico, connotato dall’aggettivo «goloso» (v.6), potrebbe dare figura al volto di Lutero deturpato dalla pubblicistica antiriformistica, non tanto come mostro, ma piuttosto come “vorace ghiottone” che volle legittimare il peccato capitale della gola col rifiuto del digiuno imposto e regolato dalla disciplina della Chiesa[29]. E, a ben vedere, si tratta, proprio, della medesima accusa che filtra tra le righe del cosiddetto Incendio de zizanie lutherane di Giovanni da Fano: il successo di questo «perfido eretico et de soi complici» si spiega soltanto con la disponibilità a concedere ai proprî seguaci «la vita delle bestie, gola et luxuria»[30].     
 
Ma tale paradigma, schiacciato, più che altro, sul ritratto morale del riformatore di Wittemburg, già a partire dal recupero sarcastico del cognome originario Luder (“carogna”, “farabutto”, e anche “sgualdrina”),[31] va ben oltre la violenza della penna dei primi polemisti cattolici: per molti secoli ancora, almeno sino a fine Ottocento, si continuerà a scrivere di Lutero come «scostumato e bevitore», il quale, «crapulando e sbevazzando» tutto il giorno, espone la propria dottrina «tra la birra delle taverne e le orge delle corti»[32], mentre la sua morte, narrata «tra bagordi e crapule», viene giudicata come «atto conclusivo d’una vita impudente»[33].

Non si può, allora, neanche escludere che l’epiteto ingiurioso creato dal Majavacca, mescoli, assieme alla sregolatezza del vissuto dell’eresiarca sassone, una qualche allusione alla concezione luterana della Santa cena con la negazione della transustanziazione, cioè del cambio di sostanza del pane e del vino che, secondo la teologia dogmatica cattolica, diventa presenza reale di Cristo nel’Eucarestia, facendo sbiadire ogni altra evocazione del sacro.  

Per altro verso, col sintagma «fier gnostèrcito» (v. 7), l’autore bussetano sembra passare dall’ oltraggio personalizzato (v.6) all’aspetto dottrinale: la Riforma, predicando la ricerca del rapporto diretto con Dio, finisce per sgretolare (terere) il “deposito conoscitivo” (patrimonium fidei) trasmesso, ininterrottamente, dal magistero della Chiesa. Del resto, anche l’aggettivo («fier») sembra deporre in questo senso: designa la superbia, l’ostinazione, la φιλαυτία (philautia), intesa proprio come autolatria ideologica, che impedisce all’eretico di assentire all’autorità della tradizione e di aderire al consensus Ecclesiae[34] .

    A questo punto, non è implausibile ritenere che gli ibridismi lessicali in questione alludano entrambi a Lutero: anzi, l’uno («artotèrcito») potrebbe essere il presupposto dell’altro («gnostèrcito»), secondo un approccio ermeneutico per nulla estraneo alla letteratura antiereticale, dove «la corruzione morale» costituisce il «primo movente degli eresiarchi e la causa del propagarsi dei loro inganni», già a partire da Epifanio di Salamina (IV sec.), uno dei più aggressivi e ascoltati polemisti del mondo cristiano antico, senza citare, poi, per il XVI sec., almeno l’opera di J. Cochlaeus, fonte fortunatissima di tanti autori posteriori[35].

            Né tale ipotesi interpretativa risulterebbe smentita dalla struttura stessa del testo, in particolare dal costrutto «insieme con» o dal dimostrativo «quel» (v. 7), l’aggettivo che, forse più di ogni altro elemento, potrebbe indiziare un secondo attore accanto al padrino della Riforma: in realtà, la locuzione prepositiva non “aggiunge” un nuovo personaggio, bensì “congiunge” due aspetti caratterizzanti il medesimo personaggio, mentre il deittico assumerebbe più che altro una sfumatura ironico-enfatica.

D’altro canto, se non si può pensare a Giovanni Calvino o a Uldrych Zwingli come comprimari di Lutero, alla data di composizione del sonetto - il primo appena all’inizio della “conversione evangelica” ed il secondo già morto da un anno[36] - , non è neanche il caso di cercarne forzosamente il sostituto, individuandolo in Satana, quale variante ultraterrena del «mostro di Cnosso», perché col Minotauro condividerebbe la duplicità d’una natura mostruosa.[37]

Ma al di là di ogni altra considerazione extratestuale, ciò che obbliga ad escludere la presenza d’un deuteragonista, storico o metastorico, è proprio l’intentio operis il cui preciso bersaglio è soltanto il riformatore tedesco, già a partire dall’intestazione dedicatoria del sonetto «contra Marthin Luthero», naturale eponimo dell’eresia che da lui prende il nome: la presenza d’ un secondo “eroe” finirebbe fatalmente per distrarre l’occhio del lettore, sottraendo al protagonista spazio poetico e visibilità, con inevitabili ricadute anche a livello morfosintattico sul resto del componimento (concordanze, pronomi, verbi).

 Tale presupposto consente, a nostro parere, di sciogliere, finalmente, il complicato rebus delle quartine con qualche certezza in più , se non altro con qualche illusione semantica in meno, secondo la seguente dichiarazione testuale:        

«Ecco, o lettore, in questo libretto (qui), la verga di Mosè (virga mosaica), capace di  abbattere ( prostrante) il Faraone e il grande esercito luterano  proveniente dal Nord ( levatosi in Aquilon) , acceso dal furore (di furor pèrcito) di diffondere quella setta serpentesca (vv.1-4). Conosci, o cristiano, attraverso quest’opera (qua), la follia dell’errore (insania erraica), la superbia di eretici come quella dei catafrigi e il vorace ghiottone (artotèrcito goloso»), nel contempo (insieme con) ben noto (quel) irriducibile (fier) corruttore della dottrina della Chiesa (gnostèrcito), accompagnato da una schiera di seguaci che agiscono nella tenebra (squadra nottaica) dell’errore» (vv. 5-8).

Da questo momento in avanti, il componimento poetico procede in modo abbastanza piano fino alla fine, eccezion fatta per l’ultimo scoglio, il termine «nemie» (v. 13) già emendato in «nizie» da Laura Bellucci e spiegato come « nuovo conio latineggiante giustificabile soltanto nel contesto del sonetto» , da ricondurre, sia pur con tutte le «riserve» del caso, al lat. nitor , col significato di «sforzi»[38], in questa occorrenza, «male indirizzati» (storte) perché incapaci di tendere alla verità. Ora, scartata ogni ipotesi di rima imperfetta (nenie?) proprio perché eventualmente accolta soltanto dal contesto, sembra più convincente emendare la lezione a stampa con notizie, termine che, senza ricorrere a studiate forzature in vitro, ben si adatta al testo in sede di rima e di computo metrico, come pure al contesto in contiguità di posizione e di significato con argomenti.

Chiarito questo punto, rilevata, inoltre, la marca tipicamente settentrionale di alcune forme espressive (adonca, v.9, soe, v. 9, ‘ste, v.11), ben giustificate dall’origine emiliana dell’autore, possiamo meglio decodificare anche lo svolgimento delle terzine :

« Fuggi, tu, dunque, fuggi, il lassismo dei comportamenti di Lutero (soe mollizie), poiché, se rifletti bene, tu potrai comprendere che ricorre a queste lusinghe (blandizie) per condurti alla dannazione (vv. 9-11). Fuggi, mio lettore, fuggi le argomentazioni cieche (andàbati argomenti) e le conoscenze distorte (storte notizie), perché Lutero (lui) non è in grado di arrivare alla verità (vv. 12-14). Perciò, ti voglio far sapere, o messaggero dell’inferno (o noncio de l’inferno), o luterano, che il nostro Giovanni da Fano con le poche pagine del suo libretto (in breve,) non ti lascerà possibilità di scampo (estingueratti) alcuno »(vv. 15-17).

Poesia che non merita «ricordanza»[39], secondo l’Affò, e purtuttavia, a nostro parere, sonetto militante, volutamente antilirico, di studiata “composizione ad anello”: la quartina incipitaria entra in contatto coi tre versi di coda, attorno all’«operetta» del frate marchigiano, allusa, al primo verso, da una metafora scritturale (virga mosaica), evocata, all’ultimo, dal toponimo dell’autore (Fano). Così, in un gioco di rimandi tra passato e presente, senza che la verità di Dio cambi alfabeto, nonostante lo scorrere del tempo, la potenza miracolosa del bastone di Mosè, capace di “prostrare” il Faraone egiziano, rivive, per una sorta di parallelismo sincronico, nel libro di Giovanni Pili da Fano, capace di “estinguere” il Faraone luterano.

E proprio a Lutero, scortato da eretici antichi e nuovi, viene riservata la seconda quartina del sonetto, dove, lo sdoppiamento della sua figura, quale “peccatore della gola” e “peccatore della conoscenza,” ne disvela l’identità, e non già per nome, come si attenderebbe il lettore, ma per titolo ideologico-morale: il riformatore tedesco, grande ghiottone nella vita privata, è il grande corruttore della sapienza della Chiesa, in una sorta d’obbligata reciprocità.

Bisognerà, tuttavia, aggiungere qualche parola sulla squadra nottaica (v.8) che accompagna Lutero nella sua azione “corrosiva”, tenuto conto soprattutto della nostra ipotesi di lettura che ha escluso la presenza di Satana come deuteragonista del sonetto.

Ebbene, qui, non ci si riferisce tanto alla «squadra di diavoli» che scorterebbe il «re dell’inferno» come «autorità del male»[40], semmai a quella «de li soi servi eresiarchi»[41], per mano dei quali, e in primis di Lutero, come avverte Giovanni da Fano, il campo della Chiesa è stato di nuovo infestato dalla zizzania di molte eresie. Il riformatore tedesco, infatti, non è solo: fa parte d’una complessa galassia eversiva che, muovendo da eresie del cristianesimo antico, passa attraverso Berengario di Tours, Pietro Valdo, Giovanni Lautero… per approdare, poi, a John Wycliffe e, soprattutto, a Jan Hus, magister Lutheri, sino al confronto-scontro con Zwingli, tanto per citare prossimità più recenti.

Ma la squadra nottaica va pure cercata, a nostro parere, in quella confusa vague luthérienne che, nel primo trentennio del Cinquecento, attraversò impetuosamente quasi tutte le regioni d’Italia ed ogni ceto sociale[42], quando sotto il termine «luterano» poteva ricadere qualsiasi forma di alterità teologica o di semplice dissenso purioris religionis causa.  

E’ difficile ritenere, a questo proposito, che il Majavacca ignorasse, nel convento diBusseto, le notizie provenienti dalla vicina Cremona, vero e proprio incrocio della Riforma in terra lombarda: ripetuti episodi iconoclastici, già nel 1525 e 1526, avevano sconvolto la città tanto da indurre le autorità a prendere provvedimenti contro chi aderiva o sosteneva «le reprobe opinioni di Martino Lutero», senza dimenticare che, nello stesso periodo, poco lontano, a Como, alcuni frati agostiniani entravano in contatto con Zwingli , diffondendo la conoscenza del riformatore svizzero[43]; e poi, il sacco di Roma, l’anno dopo, con anticipazioni dolorose anche a Borgo san Donnino, territorio limitrofo a quello bussetano: i Lanzichenecchi, il 12 Dicembre 1526, «hanno quasi svalisato Borgo»[44], devastato il Palazzo comunale nel 1527[45], dimostrando, secondo Guicciardini, «contro alle cose sacre e l’immagine de’ Santi il veleno luterano»,[46] soprattutto, stando alle cronache locali, nella Chiesa di S. Antonio , dove fu «schernita» l’effige del santo il quale colpì a morte i fanti tedeschi col «terribile male del fuoco sacro».[47]

Non si può, dunque, escludere, tornando al nostro testo, che il sonetto del 1532 avesse ancora negli occhi il clima di devastazione e di paura, quasi “domestico”, di pochi anni addietro, tale è la pressione conativa sul lettore, richiamato nel verso incipitario di quattro strofe, e scandita dalla progressione ritmica del modo imperativo, per metterlo in guardia dalla seduzione e dalle falsità del messaggio di Lutero volto alla dannazione eterna: la verità risiede solo nella Chiesa, unica depositaria dell’insegnamento di Cristo.

Si arriva, così, alla strofa conclusiva, dove, in una sorta di climax, muta il destinatario: l’autore non si rivolge più al «lettore» o al «cristiano», bensì al «luterano», esplicitamente chiamato in causa come ambasciatore infernale; introdotto dall’anafora del vocativo (o noncio dell’inferno o luterano) che ne amplifica l’accento sprezzante, il sostantivo «luterano», summa di tutti i mali, da un lato, riporta il testo all’informazione cataforica iniziale, unico locus in cui compare il nome dell’eresiarca tedesco, mentre, dall’altro, sembra “prescrivere”, attraverso la rispondenza rimica con l’ultimo verso del sonetto, l’antidoto vincente contro ogni tentazione luterana: lettura dell’Opera utilissima del nostro (Giovanni da) Fano.

Quanto, poi, al fatto che il «luterano», cioè l’eretico, sia per Majavacca nuntius inferni, cioè “portavoce di Satana”[48], non smonta affatto la nostra ipotesi interpretativa, anzi finisce per corroborarla: l’ammissione di Satana come deuteragonista, oltre a togliere la scena al protagonismo di Lutero, come già osservato, annullerebbe, di fatto, anche l’efficacia dell’aprosdòketon finale diramato su due versanti, l’uno terreno e l’altro ultraterreno, entrambi dilatati dall’effetto straniante del verbo “estinguere” , un verbo che non lascia scampo, tremendamente allusivo in quel contesto religioso, soprattutto se coniugato come “avvertimento”(v. 15).

In buona sostanza, si tratta, secondo il minorita bussetano, di “spegnere del tutto”(exstinguere) l’eretico: la vis perlocutoria dei due verbi nei versi di coda (ti lascio intendere ed estingueratti) enfatizza il ricorso all’uso della forza in materia di fede o di religione, già legittimato con virulenza da Giovanni da Fano che invoca il rogo per Lutero : «[…] Li heretici sono lupi in veste de pecore et però devono essere morti[…]. Li heretici devono essere abbrusati, et la ghiesia communiter li abbrusa , come abbrusò quel homo diabolico Johanne Hus, favorito di Lutero, el quale merita etiam lui di essere abbrusato […]. Questo se deveria fare etiam a quelli che tengono i libri del perdito Luthero[…]»[49].

 

A questo punto, il genotesto evidenziato dal finale del sonetto (e nello stesso tempo ambiguamente celato), sembra sottintendere un duplice messaggio ch’è, poi, il precipitato di tutto il componimento di frate Majavacca, tanto “pietoso” nella pratica della carità[50] quanto “infuocato” nella difesa della fede[51]:

Cristiano, che magari simpatizzi per Lutero o forse ‘in incognito’ ti sei già fatto luterano, lascia perdere: per quella via, cercheresti invano la verità. Io, comunque, ti avverto: fuggi ‘ste blanditie oppure saranno dolori, e non dovrai neanche aspettare le fiamme dell’Inferno”.

 Viene, così, capovolta la tradizionale esegesi della parabola di Mt.13: non bisogna attendere la venuta del d/Dominus, alla fine del raccolto o alla fine dei tempi, per separare il  grano dalla zizzania: le erbacce vanno sradicate subito e bruciate . [52]

 Oggi, si chiamerebbe “tolleranza zero”: sicut in caelo et in terra, pur di serbare intatta  la vera catholica dottrina.

                                        

                                                                                                                     Fausto Cremona

  


[1] Cfr. T. S. Eliot, East Coker , II, 70-71, in  Four Quartets (a c. di M. Montorfano), Forlimpopoli, 2022, pp.52-53.

[2] A quanto è dato sapere, restano soltanto i Capitularia della “Confraternita delle cinque Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo”, approvata, nel 1564, da mons. Alessandro Sforza di Santa Fiora, vescovo di Parma (1560-1573). A tale riguardo, cfr. Gio. M. Allodi, Serie cronologica dei vescovi di Parma, Parma 1856, p. 82.

[3] Cfr. C. Mingardi (a c. di), Pasco oves meas. Il monte di Pietà di Busseto e la sua Biblioteca, Parma 2002.

[4] Sull’opera (bussetana) del pittore lucense, vd. almeno Augusta Ghidiglia Quintavalla, Michelangelo Anselmi, Parma 1960; Elisabetta Fadda, Michelangelo Anselmi, Torino 2004.

[5] Quella di Parma, fondata appunto dal Majavacca, si radunava presso l’”Oratorio della disciplina” di Porta Nuova (via Farini): la «piccola fabbrica, ad una sola navata», ricostruita ed ampliata nel tempo, assumerà, poi, il nome di “Chiesa di Sant’Ambrogio”, più comunemente detta, «per antica consuetudine», “Chiesa delle cinque Piaghe”. Soppressa la confraternita nel 1911, e con essa la chiesa, lo spazio fu destinato ad uso profano con lo smantellamento della facciata settecentesca, attribuita, secondo alcuni studiosi, ai seguaci della scuola del Petitot. Cfr. G. Capelli, Alla ricerca di Parma perduta, Parma 1997, pp. 224-226.

[6] Cfr. I. Affò, Memorie degli Scrittori e letterati Parmigiani, Parma, 1793, IV, pp. 129-131. L’ Affò registra ancora, nel Settecento, la presenza nella biblioteca del convento di Busseto, del libro del polacco principe-vescovo di Warmia (1551-79), poi cardinale e legato pontificio al Concilio di Trento, Stanislao Osio, De expresso Dei Verbo, Roma 1559, con questa dedica a penna: «Reverendo Patri F. Joanni Antonio Concionatori Papae, Stanislaus Sedinius Polonus studii et observantiae pignus d.d.». Vd. anche C. Orlandi, Delle Città d’Italia e Isole adiacenti, Perugia, 1775, IV, pp. 399-400. Più in generale, cfr. T. Lombardi, I Francescani a Busseto, Bologna 1963.

[7] La stampa bolognese di riferimento è quella in possesso alla Biblioteca comunale Passerini-Landi di Piacenza : Opera vtilissima uulgare contra le pernitiosissime heresie Lutherane per li simplici , 1532 (in Bologna: Giouan Battista Phaello bolognese impresse, 1532, del mese di settembre) – 104 carte; 8° (Nome dell’autore, Giovanni da Fano, dalla dedica a carta A1v )- Precede il titolo l’invocazione IESUS MARIA- Frontespizio in cornice xilografica – Gotico- Iniziali xilografiche – Invertite nella numerazione le carte 101 e 103. Il contributo finora più convincente allo studio dell’opera del fanese rimane S. Cavazza, «Luthero fedelissimo inimico de messer Jesu Christo». La polemica contro Lutero nella letteratura religiosa in volgare della prima metà del Cinquecento in (a c. di) L. Perrone, Lutero in Italia. Studi storici nel V centenario della nascita, Casale Monferrato, 1983, pp. 65-95.

[8] Numerose le testimonianze xilografiche, in questo senso: qui si segnala, in particolare, Th. Murner, Von dem grossen lutherischen narren, Strasburgo 1522, dove il riformatore tedesco viene rappresentato vestito da folle o da giullare con il cappello d’asino con sonagli, posseduto da spiritelli maligni, che personificano le idee eretiche. Il volume, è consultabile on-line sul sito della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco; in versione a colori sul sito della Herzog August Bibliothek a Wolfenbuttel: cfr. http://diglib.hab.de/drucke/308-theol-4s/start.htm. Al riguardo, si veda anche G. Checchi, L’iconoclastia nelle stampe tedesche del primo Cinquecento in« INTRECCI d’arte», Bologna, 7/2018.

[9] Così l’ipotesi interpretativa prospettata da Giovanni Chiapponi, organista, clavicembalista e maestro concertatore, attivo in varie formazioni vocali e strumentali. Sull’attività del direttore della corale “ San Donnino” della  chiesa cattedrale di Fidenza ( PR), vd. Giovanni Chiapponi https://www.organieorganisti.it

[10] Nato a Fano , prima si fece frate minore osservante, poi entrò nella congregazione cappuccina (1534) cui si era fieramente opposto, battendosi, invano, per una riforma interna dell’Osservanza; diffuse, successivamente, il nuovo ideale cappuccino in parecchie città dell'Italia settentrionale. Morì a Castel Durante (Urbania) mentre predicava la quaresima .

[11] L’Incendio de zizanie lutherane, in realtà, non è altro che il risultato del volgarizzamento dell’Enchiridion locorum communium adversus lutherianos di Johannes Eck, teologo tedesco (1486-1583), dell’Assertionis lutheranae confutatio, del De veritate corporis et sanguinis Christi in Eucarestia adversus Joannem Oecolampadium di John Fisher, vescovo cattolico inglese e teologo (1469-1535) e dell’Apologia pro veritate catholicae fidei ac doctrinae adversus impia ac valde pestifera Martini Lutheri dogmata di Ambrogio Catarino Politi, giurista, teologo domenicano e arcivescovo cattolico italiano (1484-1553).

[12] Cfr. G. Pili da Fano, Opera utilissima uulgare ecc., c. 102 r.

[13] A questo proposito, si veda, almeno, S. Seidel Menchi, Le traduzioni italiane di Lutero nella prima metà del Cinquecento, in «Rinascimento», II s., XVII, 1977, pp. 31-108.

[14] Argomenti trattati : «qual modo dovemo tenere con li heretici» (cap. I); « de lauthorità de la santa Romana ghiesia» (cap. 2); « come S. Pietro è principe de li Apostoli» (cap. 3); «de la fede, et de le opere» (cap. 4); «de la confessione» (cap. 5); «de la Eucharestia» (cap. 6); «de le Indulgentie» (cap. 7); «del Purgatorio» (cap. 8); «de le imagine»; (cap. 9); «de li voti» (cap. 10); «de la stinentia, et celibato de li sacerdoti»(cap. 11); «de li digiuni et abstinentie (cap. 12).

[15] Cfr. G. Pili da Fano, op. cit., cc. Irv e c. 2r.

[16] Su di lui, cfr. Giacinto Picconi da Cantalupo, O.F.M. Centone di memorie storiche concernenti la Minoritica Provincia di Bologna, II, Parma 1911, p. 308.

[17] Si tratta di un sonetto caudato con schema ABBA. ABBA. CDDC. DCD. dEE. Il componimento si trova al verso della c. 3 del fascicolo preliminare segnato * e le cui 4 carte non sono numerate. La posizione del testo può dunque essere indicata come c. ast3v. Le note di pubblicazione e il colophon sono collocati a c. 101, dove insiste anche la riproduzione del timbro, che ne segnala l’antica appartenenza alla Biblioteca arcivescovile di Bologna, apposto nel margine inferiore della c. ast1v e a c. 104v (= c. N8v) da dove è riprodotto. Difficile stabilire la genesi di questo componimento poetico: se sia frutto d’una semplice corrispondenza epistolare tra il frate fanese e quello bussetano o se invece sia stato originato dalla conoscenza diretta dei due religiosi, magari favorita da Paolo Pisotti da Parma, ministro generale degli Osservanti (1529-1533), considerato lo stretto rapporto che, al momento della pubblicazione, intercorreva tra Giovanni da Fano e l’allora generale francescano il quale, oltre ad essere espressamente dedicatario dell’Incendio, sembra impegnato nella promozione del libro, patrocinato anche dal card. Lorenzo Campeggi, vescovo di Bologna. Cfr. G. L. Betti, Alcune considerazioni riguardo all’Incendio de zizanie lutherane di Giovanni da Fano pubblicato a Bologna nel 1532 in «Archiginnasio», LXXXII, 1987, pp. 235-243.

[18] Cfr. Laura Bellucci, Lutero e il diavolo in un oscuro sonetto del Cinquecento in «Studi e problemi di critica testuale», II, (1971), pp. 222-228. Quello della studiosa bolognese costituisce, a quanto ci consta, l’unico contributo critico alla lettura del sonetto. Ne riprendiamo l’edizione che elimina il grafema h di christian (v. 5), di adoncha (v. 9), di perho (v .15) e di Lutherano (v. 16); trasforma in z la t di mollitie (v.9) e di blanditie (v. 11); legge f il digramma ph di Pharaon (v. 2), di ophitaica (v. 4) e di cataphrigi (v. 6); trascrive in minuscolo sia le maiuscole incipitarie di verso, se non giustificate dal contesto, sia quelle, reverenziali, di Lettor (vv. 1 e 12), di Mosaica (v.1) e di Lutherano (v.16); introduce accenti , apostrofi e il raddoppiamento fonosintattico estingueratti (v. 17); aggiorna la punteggiatura. Cfr. ivi, p. 223, nota n. 5. Nostri sono, invece, la lettura di [levato]al v. 3, invece di lenato (Bellucci), e l’ emendamento di nemie con [ notizie] al v. 13, invece di nizie (Bellucci).

 [19] Cfr. Maria Grazia Mosci Sassi, Il linguaggio gladiatorio, Bologna, 1992, pp.74-75.

[20] Cfr. N. Pozzato, «Aliud est pugnare, aliud ventilare»: indagine stilistica sui frammenti di Cassio Severo, tesi di laurea, relatrice prof.ssa Lucia Pasetti , Bologna, a. a. 2018-19, cap. I (C. Severo: un gladiatore nel foro).

[21] Cfr. Maria Grazia Mosci Sassi, op. cit. p. 75; in particolare, vd. Ier. , ad. Helvid.,3 e adv. Jovin.,I,36.

[22] Sullo gnosticismo, in generale, e le diverse correnti che lo attraversano vd. almeno C. Moreschini-E. Norelli, Storia della letteratura antica, greca e latina, Brescia, 1995, I, pp. 252-262; M. Simonetti (a c. di); Testi gnostici in lingua latina e greca, Milano 1993. In particolare, sul significato della figura del serpente e della sua complessa plurivalenza simbolica, cfr. G. Rota , La gnosi naassena e il serpente, in Il salmo naasseno (Hipp. Haer. 5,10,2), « Quaderni di Paideia», Cesena , 2007, pp. 205-227.

[23] Cfr. C. Moreschini - E. Norelli, op.cit., p.279.

[24] Cfr.Laura Bellucci, op. cit., p. 224.

[25] Cfr. Laura Bellucci, op. cit., p.226-227. La studiosa bolognese dopo aver diviso le parole, ciascheduna, in due morfemi, arto ( dal gr. arctos : orso / Il nord) – tèrcito ( mostro) e gnos ( dal gr. Knōsós :Cnosso)- tercito (mostro ), scrive : «Non esiste né in lingua latina né in lingua greca nessun vocabolo simile a –tèrcito con senso analogo o riconducibile a quello di mostro. L’unico accostamento verosimile che si possa proporre è fra –tèrcito e il gr. δέρκομαι [dèrkomai], forzando però il senso proprio di δέρκομαι , che è “vedere”, a quello causativo e riflessivo di “farsi vedere, mettersi in mostra, mostrare”. Con tutte le riserve del caso, e qualunque sia stata nella “fantasia lessicale” di Fra Giovan Antonio la radice etimologica a cui più o meno arbitrariamente ricondusse il suo –tèrcito, ci illudiamo tuttavia di non essere troppo lontani dal vero attribuendo a questo originale conio, in lingua nostrana, il significato di “mostro”, voluto e giustificato dal contesto».

[26] Cfr., al riguardo, Ottavia Niccoli, Il mostro di Sassonia. Conoscenza e non conoscenza di Lutero nel Cinquecento (1520-1530 ca.) in L. Perrone, op. cit., pp. 5-25.

[27] In particolare, questo lessema fa venire in mente il plautino Arto-trogus ( = strozza pagnotte), “nome parlante” d’ un parassita del Miles gloriosus, che richiama anche τρωξ-άρτης (Batrt. 28, 10,109, 25), fino ad arrivare al Rodipane dei Paralipomeni di G. Leopardi. Inoltre, può essere utile aggiungere che il termine di uso gergale arto/urto (con apodosi a/u) significa «pane», sempre dal greco artos, attraverso il lat. med. artona.

[28] Cfr. A.Traina. Forma e suono- Da Plauto a Pascoli, Bologna 1999, pp. 15-16.

[29] In questa direzione sembra già muoversi Christophe de Longueil, (noto anche come Longolius o Longolio) nella sua orazione Ad Luterianos quosdam iam damnatos (1521), dove l’umanista fiammingo si domanda, in una sorta di lettura psicodinamica, tra «simulazione della virtù» e «dissimulazione del vizio», se «l’attacco» di Lutero nei confronti della «pratica del digiuno» non sia la spia della «sua avidità di cibo» o se «la richiesta del matrimonio dei preti» non rimandi alla « sua intemperanza sessuale» , e ancora: se la sua ossessione per «l’avarizia clericale» non sia segno di «avarizia personale». Cfr. A. Biondi, Il ciceroniano e l’eversore in L. Perrone, op. cit., pp. 42-43.

[30] Cfr. M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento. Un profilo storico, Bari, 2023, p. 37.

[31] Non sono da meno i protestanti i quali non parlano più di Jesuiten (gesuiti) ma di Jesuwider (Anticristo). Cfr. Laura Auteri, La retorica delle immagini nei flugblätter del Cinquecento in Quaderni di Filologia latina, Palermo, 2012, 1n.s (1n.s), pp. 123-129.

[32] Cfr. G. Miccoli, «L’avarizia e l’orgoglio di un frate laido… ». Problemi e aspetti dell’interpretazione cattolica di Lutero in L. Perrone, op. cit., p. XIX.

[33] Cfr. M. Marcocchi, L’immagine di Lutero in alcuni manuali di storia ecclesiastica tra ‘800 e ‘900, Ibidem, p. 174. Lo stesso G. Carducci, pur inneggiando all’azione del riformatore tedesco che contro al Papa «spinse Cristo Gesù duro ed austero», non può rinunciare al recupero dell’immagine di Lutero tra le «gioie del nappo e del saltero». Cfr. G. Carducci,  Martino Lutero  (1886), in «Rime Nuove», 1906.

[34] Emblematico, al riguardo, l’atteggiamento di Lutero. Dopo la bolla pontificia Exsurge Domine (1520) che condannava le sue tesi, il riformatore tedesco sfidò in modo sprezzante il Papa  con uno dei suoi discorsi più incendiari (Contro la bolla dell’Anticristo), bruciando l’atto pontificio, il codice di diritto canonico e gli scritti dei suoi avversari davanti alla chiesa di Wittemberg. Ma anche di fronte all’autorità politica tenne un comportamento non meno pertinace. Alla dieta di Worms (1521), convocata da Carlo V d’Asburgo, che lo invitava alla ritrattazione, rispose: «Se non sarò convinto mediante le testimonianze della Scrittura e chiare ragioni - poiché non credo né al papa né ai concili da soli – dato che è evidente che hanno errato e si contraddicono - io sono vinto dalla mia coscienza e prigioniero della Parola di Dio a motivo dei passi della Sacra Scrittura che ho addotti. Perciò non posso né voglio ritrattarmi, poiché non è sicuro né salutare fare alcunché contro la coscienza. Non posso fare altrimenti. Io sto fermo qui. Amen». Cfr. Lucia Felici, La Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento, Roma, 2016, p. 65. 

[35] Cfr. Melloni Lutero. Un cristiano e la sua eredità. 1517-2017, Bologna, 2017, vol.II, p. 685 e ss.

[36] Anche se non tutti concordano , la prima manifestazione di Calvino riformatore viene solitamente individuata nel discorso, da lui composto per il rettore della Sorbona, Nicolas Cop, e da questi pronunciato, il 1° Novembre 1533, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno accademico. Bisognerà, tuttavia, aspettare il 1536 per avere la prima edizione, pubblicata a Basilea, della Christianae religionis institutio, mentre l’edizione definitiva, sempre in lingua latina, uscirà a Ginevra nel 1559. Per quanto riguarda, invece, Zwingli, egli venne ucciso dai cattolici l’11 ottobre 1531 nella battaglia di Kappel, il suo corpo bruciato come eretico. Sui particolari della vicenda Cop-Calvino cfr. E. Rott, Documents strasbourgeois concernat Calvin, Paris 1965, mentre per la storia dei rapporti tra Calvino e l’Italia e tra gli italiani e Calvino, si veda almeno A. Prosperi, Calvino e l’Italia in op. cit., pp. 251-265; sulla fortuna del riformatore svizzero in Italia, argomento a tutt’oggi scarsamente indagato, si veda F. Zuliani, L’Italia e Zwingli:origine e sviluppo della prima Riforma,Roma 2024.

 [37]«[…]. Al ricordo di Cnosso, poi si associa spontaneamente quello del Minotauro. E come non presumere che proprio a quel tremendo mostro voglia alludere Frate Giovani ?[…]: è da escludere che il fier gnostercito sia un personaggio storico o un eretico della statura paragonabile a quella di Lutero[…]. Se dunque il mostro mezzo uomo e mezzo bestia non appartiene al mondo dei viventi e della storia, dovrà verosimilmente appartenere al mondo ultraterreno; e andrà identificato con un ben preciso personaggio che rechi in sé mostruosamente mescolate due diverse nature: sarà Satana, che rappresenta la degradazione bestiale della natura angelica, così come il Minotauro rappresenta l’abbruttimento della natura umana;[…]». Così Laura Bellucci in op.cit., p. 227.

[38] Cfr. Laura Bellucci, op. cit. p. 228.

[39] Cfr. I. Affo’, op. cit., p. 129.

[40] Cfr.Laura Bellucci, op. cit. p. 227.

[41] Vd. supra, p. 3.

[42] Sulla storia della diffusione della protesta luterana in Italia, rimane ancora fondamentale la vasta documentazione fornita da S. Caponetto, La riforma protestante  nell’Italia del Cinquecento, Torino 1992.

[43] Cfr. M. Firpo, op. cit. p. 32. Dato il sincretismo teologico tipico della Riforma italiana, c’è chi non esclude una fase zwingliana dell’ecclesia cremonensis prima dell’adesione al calvinismo. Cfr. F. Zuliani, op. cit. pp. 113-117.

[44] Cfr. Aimi - A.Copelli, Storia di Fidenza, Parma, 1982, p.121

[45] Cfr. G. Laurini, S. Donnino martire e la sua città, Borgo san Donnino 1924, p. 103.

[46] Cfr. F. Guicciardini, Storia d’Italia, XVII, cap. 16. Più in generale, per i fenomeni iconoclastici al di qua delle Alpi, si veda almeno M. Firpo - F. Biferali, Immagini ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Roma, 2016.

[47] Cfr. G. Ponzi (a c. di), Collezionismo fidentino: documenti e immagini, Fidenza 1988, pp. 46-47.

[48] Va detto che, fin dal Medioevo, l’eresia viene concepita come furor et malitia diaboli e gli eretici chiamati noncii diaboli . Ci troviamo, cioè, di fronte ad una demonizzazione del “diverso”, di chiunque la pensi in modo divergente: “eretici”, “ebrei”, “forestieri”… sono tutti soggetti “irregolari”e, dunque, associati ad ogni forma di negatività diabolica. Questo fenomeno provoca ricadute anche nella tradizione orale: per esempio, bastiemà com un luteràn, è un nesso riportato dagli atlanti linguistici di Grado, tra la foce dell’Isonzo ed il mar Adriatico, mentre il termine luterano si radica, col significato di miscredente nelle parlate del versante alpino meridionale, dal Piemonte all’attuale Ticino, dal Trentino fino al Cadore e al Comelico. Ma il giudizio negativo, tipicamente popolaresco, verso i protestanti volge anche in altre direzioni: nel Comasco arián significa collerico, incivile,  mentre il lombardo resiat (lat. haeresis) significa persona litigiosa e il verbo resïá ha il senso di attaccar briga; in Brianza abbiamo zanevréga come luogo di miscredenti oppure zanevreghίn come ateo/ miscredente: forme tutte riconducibili a Ginevra, la città “riformata” di Calvino. Si veda anche il lig. barbetu come uomo crudele, brigante, derivato dal piem. barbét che vuol dire valdese, protestante. Per contro, il termine cattolico assume significati singolarmente positivi (sardo: cattólicu: sincero; cal. Católicu: perfetto, regolare, mentre mangiare catuólico  significa mangiare con appetito). Emblematica, poi, la scena del cap. XXIX dei Promessi sposi di Manzoni: «Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; [D. Abbondio]Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? […]. Ma è, soprattutto, nella letteratura villanesca rinascimentale che si trovano testimonianze significative: ritorna spesso (s)luteran in Ruzzante ( 1496 – 1542) come insulto generico contadinesco, mentre il veneziano Andrea Calmo (1510 -1571) fa bestemmiare un personaggio della sua commedia dialettale Las Spagnolas (1549) in questo modo: la pota de l’anticrist luterà, un’espressione intraducibile o che forse è meglio non tradurre. Cfr. G. L. Beccaria, I nomi del mondo, Torino 1995, pp. 124-133; id. Tra le pieghe delle parole, Torino 2007, pp. 117-145; L.Tomasin, Bestemmia come un luteràn, «Il Sole-24 ore», 24 /09/ 2017, p. 24.

[49] Cfr. G. pili da Fano, op. cit., cc. 17r – 18v.

[50] Il riferimento ritorna alla fondazione del Monte di pietà, evento dovuto all’iniziativa del religioso francescano ed immortalato, poi, dal capolavoro del pittore bussetano Isacco Gioacchino Levi (1818-1908), collocato, oggi, presso il palazzo del Monte di Pietà di Busseto: seduto dietro al canonico di San Bartolomeo, Niccolò Pillati, che legge l’atto costitutivo del pio istituto dinanzi a Girolamo ed Ermete Pallavicino, al Prevosto di Busseto e a due testimoni, s’intravvede pure la figura d’un frate attentissimo e compiaciuto che viene identificato in fra Majavacca. Cfr. C. Dotti e C. Mingardi, Quasi un museo. Arredi e quadri nel palazzo del Monte in C. Mingardi, Pasco oves meas, op. cit., pp. 103-105. Tuttavia, la marcata somiglianza del volto del Majavacca con quello dell’Affo’ (1741-1797), altra gloria del convento di Busseto, fa sospettare che il Levi, in assenza di fonti iconografiche coeve, abbia mutuato l’immagine del frate cinquecentesco da quella del più famoso religioso settecentesco di cui è tramandata una sicura ritrattistica:quasi una sorta  d’omaggio incrociato al francescanesimo bussetano.

[51] Probabilmente bisogna partire proprio dall’intransigenza di questo sonetto antiluterano per spiegare la presenza del Majavacca al concilio di Trento in qualità di reggitore, funzione di non poca rilevanza: essere reggitori significava esercitare grande influenza sulle deliberazioni conciliari. I reggitori, infatti, erano prelati di grande esperienza e teologi di sicura dottrina col compito di garantire ordine ed efficacia al dibattito assembleare (coordinamento delle sessioni, elaborazione dei decreti, mediazione nelle divergenze teologiche) nonché di assistere la presidenza affidata al papa o ai suoi legati. Tra i padri conciliari, presenti alla terza fase dell’assise tridentina, si distinsero, a diverso titolo, i cardinali C. Borromeo, G. Morone, G. Castagna (futuro Urbano VII), E. Gonzaga e il polacco S. Hosio (cfr. supra nota n. 6): tutti personaggi ai quali, verisimilmente, il frate bussetano fu accanto, in virtù del suo incarico. Così, tra il gennaio del 1562 e il dicembre del 1563, egli ebbe modo di contribuire, come teologo e consultore, alla discussione delle questioni dogmatiche e disciplinari che furono affrontate nella fase conclusiva del concilio: dalla dottrina della messa al sacramento dell’ordine e del matrimonio fino al decreto dell’istituzione dei seminari e a quello sulla riforma dei conventi e degli ordini religiosi.

[52] Per la riformulazione dell’esegesi della parabola di Mt. 13,24-30; 36-43, cfr. A. Prosperi, Il grano e la zizzania: l’eresia nella cittadella cristiana in Id. Eresie, op. cit., pp. 55-85.

 

2 commenti:

  1. Le mie più sincere congratulazioni ad Ambrogio e al prof. Cremona per la pubblicazione di questo saggio così ricco , importante e coinvolgente.
    F.P.

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  2. Bravo Fausto, abbiamo sete di cultura e conoscenza, grazie.
    l'Anonimo di Borgo

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