Superando le difficoltà contingenti, che non erano di poco conto, Ettore e la sua Famiglia realizzarono questa mostra antologica. Inizialmente fu impostata congiuntamente con la Diocesi che poi, per i fatti connessi alla demolizione dell'altare secentesco, uscì dall'impresa.
Nella foto sopra vediamo i saluti dell'amministrazione comunale con il Sindaco Giovanni Mora, Massimo Galli e il futuro sindaco Claudio Rossi. Come erano neri i nostri capelli!
"Il Risveglio" dette opportuno risalto alla mostra ignorando le disposizioni curiali, cosa che alla fine anche il Vescovo Mario Zanchin fece.
Il successo della mostra e del catalogo fu pieno.
Fidenza sapeva rispondere alle provocazioni culturali, ma allora anche gli attori erano presenti o sceglievano Fidenza, basta dare un'occhiata a questa pagina di allora:
La locandina della mostra |
Ferdinando Arisi
(Dal catalogo della mostra personale dell'ottobre 1985)
ETTORE PONZI non ha mai fatto una "personale"; eppure qualche ambizione deve averla avuta, negli anni verdi, se concorse al "Premio Cremona", nel '40, quando fu proposto il tema della bonifica. Il suo dipinto, di notevoli dimensioni, illustrato in catalogo a piena pagina, era un paesaggio animato da molte figure in secondo piano, un terreno golenale dello Stirone, presso Fidenza, visto nell'euforia del primo raccolto. Andò distrutto con la sua casa, sotto le bombe.
Un'idea di quello che faceva negli anni trenta più che dai rari ritratti (del '34 e del '35), caratterizzati da una resa icastica un po' forzata, ci viene da un mazzetto di vedute e di paesaggi, realizzati con molta sensibilità. Ponzi, attratto dal gioco sottile dei bianchi, amava ritrarre la neve: sui tetti della chiesa di San Giorgio, nel cortile del Vescovado, lungo le rive dello Stirone, il suo fiume, che l'ha sempre affascinato anche per la sacralità, legato com'è alla "storia" di San Donnino. Una piccola nevicata del '32, di grande interesse per il gusto della materia, che lo porta a sfruttare le asperità del fondo per ottenere rarefatte vibrazioni d'atmosfera, è opera d'autentica poesia, non facilmente collegabile con quanto s'andava dipingendo in quegli anni nel clima del Novecento (echi morandiani?).
All'Istituto d'Arte di Parma, Ponzi aveva studiato con buoni maestri: con Paolo Baratta, disegnatore di raffinata eleganza, con il giovanissimo Aldo Raimondi, già famoso nell'acquerello, e con Guido Marussigh, scenografo di talento; ma a nessuno di loro sembra riferirsi in questi dipinti degli anni trenta, realizzati a tecnica mista, in gran parte a spatola. La pittura di macchia di Raimondi, però, che Ponzi ricorda per le doti straordinarie, come un miracoloso stregone, può avergli suggerito i contrasti violenti di luce ed ombra in un'assolata via deserta della periferia (1933) o i bianchi abbacinanti di una nevicata in una piazzetta dietro l'abside del Duomo di Fidenza (1935), tema dominante, quasi ossessivo, nell'immediato dopoguerra.
Proprio quando era tutto intento a farsi la mano nell'esercizio sul vero, la chiamata alle armi lo portò sotto altro cielo, in Albania, dove seppe adeguarsi alla situazione, ma prima con un certo impaccio. Sono della primavera del '42 due o tre teste di bambine e alcune vedute della Macedonia realizzate d'impeto, con buoni risultati; teste che hanno dentro molto sole e la pena di tempi tristi. Una ragazzina con un fazzoletto rosa in testa è dipinta con scioltezza, senza il segno scavato che mortifica i ritratti di sette od otto anni prima. Il fiore viola sull'orecchio, messo lì a far l'amore con il pendente rosso di zingara, è suggerito, forse, dalla stagione (9 maggio), ma i bottoni verdi sulla veste stinta è Ponzi che li inventa, per dare speranza a giorni turbati da infinite preoccupazioni e dal ricordo della sua bambina, così lontana. La stesura larga del pigmento non è disturbata dalle cadute di colore. La tela, portata, a casa dopo fortunose peripezie, compresa la prigionia in un lager tedesco, era stata riposta in una cartella insieme ad un paio di tavolette dipinte anch' esse col cuore: un paio di barche; una catena di monti, senza un albero che desse consolazione.
Sarebbe interessante il commento diretto di Ponzi alle immagini del lager (ma egli preferisce il linguaggio delle immagini): di là dal filo spinatola Natura è libera come l'ha fatta Iddio, ma i pali che sostengono la rete somigliano ad una forca, col braccio teso a minaccia. In un altro acquerello dalla porta spalancata entra il sole nella baracca, ma è chiuso il campo, e fa paura la corona di spine che lo recinge. Verità e simbolo; soliloqui di un uomo non eloquente. Tra i "documenti" di quell'esperienza gli acquerelli di un carro armato, di un paio di cannoni, di un aeroplano abbattuto, di una stufa accesa in una baracca, e un buon ritratto d'un uomo in pena, lui.
Ci sono, poi, dipinti e disegni che evocano ricordi della convivenza "difficile" con Hoxha, lo scomparso capo del governo albanese, al comando, allora, d'un agguerrito contingente di partigiani. Il disegno d'un lago tra i monti, ricorda Ponzi, fu realizzato al di là della zona di sicurezza; gli sarebbe piaciuto disegnare il lago "dall'altra parte", e con i suoi soldati (Ponzi era ufficiale) l'era andato a vedere, rompendo il trantran d'un giorno qualunque.
Finita quella stramaledetta guerra, anche Ponzi poté rivedere la sua Fidenza (ancora Borgo San Donnino nei ricordi dell'infanzia); una città violentata dai bombardamenti, ma era salvo il Duomo, tra le rovine, solenne nella nudità velata dalla nebbia del primo feroce inverno di pace. Sono del 45 i dipinti migliori di tutta la sua produzione; come se l'interminabile indugio del '44, l'anno dell'attesa, dopo l'otto settembre, gli avesse cavato fuori le virtù più recondite. La rocca ferita, più suggestiva che mai, la dipinge in un giorno di sole, senza prevedere che il suo atto d'amore si sarebbe trasformato in denuncia d'un bene perduto. Dipinto prezioso, al quale ci si riferirà, meglio che alle fotografie, arricchito com'è dal fervore creativo d'un artista che se n'era appropriato come testimone quotidiano della sua storia privata. Realizzato a spatola, tormentato ma non pasticciato, è ricco di sottili valori.
Qualcuno s'era accorto di quanto Ponzi andava realizzando nelle rigide giornate di quell'inverno (un inverno con tanta neve; lo ricordo). Una nota anonima posta accanto alla riproduzione d'una sua abside del Duomo, la commentava con sensibilità e intelligenza: "Sotto il manto d'una candida, deserta uniformità la neve cerca di coprire la visione squallida di rovine ancora palpitanti. Il vecchio Duomo, in disparte, cerca invano attorno a sé un po' di festa e di vita... Noi attendiamo fiduciosi di ridargli la gloria e il vanto che esso ha sempre regalato alla sua città".
È proprio il mazzetto di dipinti del '45, in gran parte realizzato spostando il cavalletto tra le macerie, che forma il nucleo più interessante di questa mostra. Lo attraggono i resti del vescovado, del seminario, della canonica del Duomo avvolti nella nebbia (pretesto per una ricca variazione di grigi) o coperti di neve sotto il sole, con i rosa delle case che sorridono al di là dei mozziconi brunastri in rovina. Le architetture, vincendo in qualche caso il rigore del filo a piombo, ballonzolano nell'aria nell'attimo dello sfascio o nella solitudine desolata e sofferta del "giorno dopo".
È del '46 la tiepida variazione di bianchi suggerita dalla riva dello Stirone sotto la neve; s'intravedono appena i tetti di due o tre case al di là del muro candido di luce.
In un altro quadretto di qualche mese dopo è invece lo squarcio del ponte sul fiume che funge da protagonista; un urlo al quale fanno eco altre rovine.
Sono temi che l'attraggono per un paio d'anni, e che sviluppa e varia legandoli l'uno all'altro prendendo come denominatore comune il Duomo, perno e leit-motiv.
Ponzi dipinge volentieri anche la chiesa dei Gesuiti, con le case e i palazzi circostanti.
In seguito la sua pittura si fa più larga, meno tesa. Nel '50, quando s'incendia il pozzo petrolifero di Bersano di Besenzone, dipinge sul posto tre quadretti "anomali" che superano il valore di documento; prezioso anch' esso, però, perché non mi risulta che altri artisti se ne siano interessati. L'alta colonna di fuoco gli suggerisce un cromatismo diverso ma non "acceso" (neppure in questo caso). Il colore urlante gli è del tutto estraneo; è nel suo carattere il "sottovoce". Se il soggetto lo esige (è il caso del "mercato in piazza Garibaldi", del '52), Ponzi s'adegua, ma con un certo sforzo, e lo si nota perché non è questa la sua via; e non è che non gli garbi qualche pennellata d'azzurro o di rosso dove occorra, ma solo per dar vita a una zona morta, per innervare una composizione che rischierebbe d'illanguidire, specialmente se alto è il sole e forte il contrasto luce-ombra.
Ferdinando Arisi
1985
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