Con Calamandrei potremmo dire che anche l’articolo 9 della Costituzione è un articolo polemico: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Anzi, forse esso appare ancor più polemico oggi di quanto non avrebbe potuto apparire allo stesso Calamandrei, il quale scriveva nel 1955. E questo non solo perché oggi è evidente che la Repubblica, di fatto, non promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca, e non tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico. L’articolo 9 oggi appare polemico addirittura strutturalmente: giacché – nel senso comune, ma anche nella consapevolezza della stragrande maggioranza dei cosiddetti operatori dei ‘beni culturali’ - i due commi che lo compongono sembrano non avere più nulla in comune. Cosa c’entrano, infatti, la cultura, o addirittura la ricerca, con il patrimonio, meglio noto come il “petrolio d’Italia”? E si badi – lo si dice con parole dell’allora (2003) capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi – che “la stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile”.
Ma il divorzio
tra l’educazione, la cultura e la ricerca da un lato e i beni culturali
dall’altro è un divorzio antico: esso venne sancito già nel 1974 con
l’improvvida scissione tra il Ministero della Pubblica Istruzione e il malnato
Ministero per i Beni culturali.
E tener d’occhio questo assetto formale è
assai istruttivo, soprattutto quando se ne considerino le proiezioni attuali:
giacché aumentano ogni giorno le voci di coloro che vorrebbero unire il
Ministero per i Beni Culturali a quello del Turismo, o addirittura a quello
dello Sviluppo Economico. Il che, almeno, renderebbe chiaro un sentimento sempre
più diffuso: quello che per cui – per usare le parole profetiche pronunciate da
Gianni De Michelis nel 1985 – “le risorse necessarie alla conservazione non ci
saranno mai finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica. Le
risorse non si avranno infatti mai semplicemente sulla base del valore
etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene
culturale viene concepito come convenienza economica”.
Nella voragine che
questa visione strumentalmente mercantilista ha progressivamente aperto tra i
due commi dell’articolo 9 della Costituzione, è precipitata la storia dell’arte
come disciplina umanistica.
Se qualche rara voce si leva a denunciare le
principali cause della distruzione, quotidiana e irreversibile, del patrimonio
storico e artistico italiano (vale a dire dell’epifania forse più tangibile del
suicidio del nostro Paese) nessuno ne affronta il nodo centrale: l’inesorabile
degrado del ruolo della storia dell’arte nel discorso pubblico italiano. Se
vogliamo salvare il patrimonio artistico, prima ancora che parlare del doloso
smantellamento del sistema della tutela, del prosciugamento delle risorse o del
sistema delle impunità, dobbiamo chiederci a cosa serve quel patrimonio: qual è,
cioè, il ruolo dell’arte del passato nell’Italia di oggi.
La storia dell’arte
è da tempo uscita dal dibattito culturale, e la sua estrema mutazione prefigura
il destino delle altre discipline umanistiche: strumentalizzata dal potere
politico e religioso, banalizzata dai media e sfruttata dall’università, essa è
ormai una escort di lusso della vita culturale. Il suo statuto non è più quello
di sapere critico, strumento di riscatto morale, di liberazione culturale e di
crescita umana, ma è invece quello di un fiorente settore dell’industria
dell’intrattenimento “culturale”, di potente fattore di alienazione, regressione
intellettuale e programmatico ottundimento del giudizio.
È venuto il tempo
che di queste cose si inizi a parlare in pubblico, e anche in questo caso la
chiave generazionale appare cruciale – per questo non pochi storici dell’arte
hanno deciso di aderire a TQ. Come può riuscire a sollevare la questione chi ha
condotto il gioco per decenni, fallendo e rifiutando tuttora di cedere il passo?
Come può provarci chi ancora non riesce ad entrare? Può – anzi: deve – almeno
tentare chi è da poco entrato nei luoghi dove si produce cultura, portandosi
ancora dentro la voglia di cambiare. Ebbene sì: il punto è sputare nel piatto in
cui abbiamo appena cominciato a mangiare. Sputarci, rovesciarlo, rifarlo: purché
torni a servire a qualcosa. Andiamo dunque a elencare i dieci punti attorno a
cui ruota il Manifesto TQ sul “patrimonio storico e artistico della nazione
italiana”: proponiamo di adottare l’espressione prescelta dal dettato
costituzionale e di non usare la formula, nefasta ed equivoca, di “beni
culturali”.
Primo. Occorre affermare con forza la funzione civile e
costituzionale del patrimonio. Occorre dire che il patrimonio non è un lusso per
i ricchi né è un mezzo per intrattenersi nel “tempo libero”, ma al contrario
serve all’aumento della cultura ed è un importante strumento per la rimozione
degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo
della persona umana” e per l’attuazione piena dell’eguaglianza costituzionale. E
occorre anche dire che, dunque, il suo fine non è quello di produrre reddito.
Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione NON è il petrolio
d’Italia.
Secondo. Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere
mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali
pubblici. Fatti salvi i principi generali di competenza (per cui vedi il punto
7) potranno ammettersi al più concorsi privati di finanziamenti, di controllata
finalizzazione costituzionale. Il patrimonio di proprietà pubblica deve rimanere
tale: e sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso
non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso
prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di
fatto ne sottraggono alla collettività il governo, immancabilmente
socializzandone le perdite (in termine di conservazione e di degrado culturale)
e privatizzandone gli eventuali utili.
Terzo. Il patrimonio appartiene alla nazione italiana (e in
un senso più lato esso è un bene comune all’intera umanità), e anzi la
rappresenta e la struttura non meno della lingua. È per questo che il sistema di
tutela deve rimanere nazionale e statale, e non può essere regionalizzato o
localizzato.
Quarto. Il patrimonio è proprietà di ogni cittadino (non pro
quota, ma per intero) senza differenze di credo religioso. Il patrimonio, cioè,
è laico: ed è tale anche quello religioso e sacro. In altre parole, al
significato sacro delle grandi chiese monumentali italiane si è sovrapposto un
significato costituzionale e civile che, non negando il primo, impedisce alla
gerarchia ecclesiastica di disporre a suo arbitrio di tali porzioni del
patrimonio stesso.
Quinto. Il patrimonio che abbiamo ereditato dalle
generazioni passate e che dobbiamo trasmettere a quelle future (e del quale
dobbiamo render conto a tutta l’umanità) deve rimanere affidato ad una rete di
tutela che obbedisca alla Costituzione, alla legge, alla scienza e alla
coscienza, e non può cadere nella disponibilità delle autorità politiche che
decidono a maggioranza. Ogni forma del plebiscitarismo ormai largamente invalso
nel Paese appare, infatti, particolarmente pericolosa se applicata al
patrimonio.
Sesto. Il patrimonio storico e artistico italiano è coesteso
e fuso all’ambiente e va tutelato, conosciuto e comunicato nella sua dimensione
organica e continua. È inaccettabile ogni politica culturale che si concentri
sui cosiddetti capolavori “assoluti” (cioè, letteralmente, “sciolti”: da ogni
rete di rapporti significanti) per espiantarli e forzarli in percorsi espositivi
dal valore conoscitivo nullo. In altre parole, in Italia gli eventi stanno
uccidendo i monumenti: e occorre, dunque, una drastica inversione di rotta.
Nella stragrande maggioranza, le mostre di arte antica sono pure operazioni di
marketing che strumentalizzano le opere, ignorano la ricerca e promuovono una
ricezione passiva calcata sul modello televisivo: la discussione e l’adozione di
un codice etico – e innanzitutto di una severa moratoria – per le mostre appare
dunque urgentissima.
Settimo. È vitale affidare la tutela materiale e morale del
patrimonio a figure professionali di sperimentata competenza tecnica e
culturale. A seconda dei vari ruoli, esse sono quelle degli storici dell’arte,
degli archeologi, degli architetti, dei restauratori diplomati dall’ICR e
dall’OPD. Non ha invece alcuna identità specifica (né sul piano intellettuale,
né su quello professionale) la figura del cosiddetto “operatore dei Beni
culturali”.
Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione
l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali. Non solo la loro
esistenza è intenibile sul piano intellettuale (qual è infatti lo statuto
epistemologico dei cosiddetti Beni culturali?), ma sostituendo agli storici
dell’arte-umanisti figure di “esperti” o “tecnici” tali corsi e facoltà pongono
le premesse per l’azzeramento della tutela e dell’attribuzione di senso
culturale al patrimonio stesso. Occorre invece ribadire con forza che la
funzione primaria degli storici dell’arte come umanisti è quella di favorire “la
riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni”. Combattere,
cioè, perché il tessuto storico delle nostre città torni ad essere lo strumento
di crescita culturale garantito dalla Costituzione, e sfugga all’alternativa tra
la distruzione e la trasformazione in un parco di intrattenimento a
pagamento.
Nono. È necessario restituire dignità e utilità
intellettuali alla presenza della storia dell’arte sui media italiani: che
attualmente è dilagante, quanto mortificante. Chi può dire di aver appreso,
tramite un giornale italiano, qualcosa circa l’attualità della ricerca
storico-artistica? Quale saggio, idea, prospettiva scientifica, scuola di
pensiero ha potuto trovare uno spazio per presentarsi al grande pubblico? Il
novanta per cento degli articoli che trattano di storia dell’arte si occupa di
mostre essendone, di fatto, una pubblicità più o meno occulta: gli sponsor
comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani in cui
pubblicare stralci del catalogo accanto ad interventi promozionali di noti
storici dell’arte. La storia dell’arte rappresenta, di fatto, il fronte più
avanzato della mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing
occulto.
Decimo. Il fronte più importante nella battaglia per la
salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella
scuola. È vitale difendere e anzi ampliare l’asfittico spazio concesso negli
orari scolastici a quella “storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar
da bambino come una lingua viva, se vuole aver coscienza intera della propria
nazione” (la citazione è da Roberto Longhi).
Chi davvero ha a cuore il futuro delle opere d’arte, e della natura e della
storia che le hanno generate – cioè chi ha a cuore il futuro del nostro Paese ,
deve lottare perché le prossime generazioni escano dall’analfabetismo figurativo
che ha afflitto quelle precedenti, e che ha sempre reso cieca la classe
dirigente della Repubblica.
Questa linea rigetta i cardini teorici su cui
hanno ruotato la privatizzazione e la banalizzazione del patrimonio messe in
atto negli ultimi trent’anni attraverso una politica sostanzialmente
indistinguibile (e lo si dice con profonda tristezza) in base alle categorie di
destra e sinistra. Ma essa apre anche una riflessione critica circa i modi e i
limiti entro i quali il patrimonio può essere considerato “bene comune” nel
senso indicato, in Italia, da Stefano Rodotà e da Ugo Mattei: l’istanza del
“comune”, pienamente condivisibile se non opposta frontalmente a quella di
“pubblico”, non deve nascondere che il rimando a comunità locali può
paradossalmente legittimare appropriazioni localistiche e minoritarie del
patrimonio che si tratta appunto di salvaguardare.
La negligenza civile prima
che disciplinare di coloro che sarebbero naturaliter competenti (cioè gli
storici dell’arte), l’inettitudine della classe politica e la complessità stessa
della materia spiegano perché questa riflessione sia largamente tralasciata. Ed
è proprio per queste ragioni che un contributo collettivo come quello di TQ
risulta particolarmente rilevante.
Tomaso
Montanari
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