martedì 28 ottobre 2014

Il dialetto non è il giullare ......... di Claretta Ferrarini


Avevo scritto un lungo commento che, purtroppo, è sparito ed ora non ho più tempo di rifarlo. Mi limiterò soltanto a postare , con un copia e incolla, alcuni stralci del voluminoso Cap. 1° del Dizionario Etimologico Borghigiano sulle cui carte ho trascorso parecchie notti. 
Il titolo del Cap. è “BREVI NOTIZIE” (brevi è un eufemismo).
È un’anteprima per l’importante blog dell’amico Ambrogio Ponzi.
Claretta Ferrarini

“BREVI NOTIZIE”


Il dialetto non è il giullare delle lingue, né la lingua dei giullari. Non serve solo per far ridere, raccontando barzellette o recitando farse e commedie; esso è una lingua dotta, con la quale si può pregare, piangere, scrivere romanzi, trattati e quant’altro.
Indagare, studiare, valorizzare, parlare e scrivere il proprio dial. non deve essere una forma di nostalgia e di rimpianto del passato, ma dev’essere “cura della parola e della scienza del linguaggio”. Diventiamo insopportabili e un pò stupidotti, quando vogliamo convincere noi e gli altri che “una volta” era tutto più bello, più buono, che c’era più amore e che si andava d’accordo etc. È una forma di esagerato e, spesso, ipocrita cordoglio che non condivido. Non deve essere così per il proprio dial.: esso non appartiene ad un nostalgico “passato”, nel quale ha solo le radici, ma è un presente vivo e palpitante.
Il dialetto non è una lingua morta, è molto più languente l’Italiano, soffocato dai neologismi, dalle storpiature e dall’anglosassone imperante. È languente all’ultimo soffio il latino (che non è ancora morto stecchito), ma non il dialetto. Questo è solo malato e ci sono pochi medici e poche medicine per curalo, ma ha dentro di sè, una forza tanto potente da permettergli di tenersi in vita da solo. Se non lo si bastona continuamente, però.
Chi teme che il rinvigorirsi dei dialetti, sia un pericolo per l’Unità Nazionale è in errore. Il dialetto è una forma di identificazione e di appartenenza, come può esserlo il proprio cognome, o il cognome della madre, cioè le due famiglie dalle quali ognuno proviene. L’uomo ha bisogno di “appartenere”.
Per chi insiste in un’arcaica e scolorita dialettofobia ritenendo il vernacolo la lingua degli ignoranti, dichiaro: io, ancor piccola, sentivo il già vecchissimo dr. Tridenti del 1880 circa, parlare un bellissimo dialetto e così sentivo parlare tutti i cosidetti “ricchi” e acculturati di Borgo quando interloquivano in Piazza o davanti le caffetterie più eleganti. Altresì, non ritengo giusto lasciarsi trasportare da correnti dialettomaniacali perchè tütt i tròpp i stan par nöžar e modus in rebus. Dobbiamo dare il giusto senso ad ogni cosa: la lingua italiana ha unito e deve continuare a farlo, una nazione che era sparpagliata; la lingua vernacola deve tenere unita una città prima che si sparpagli. Via dalla mente anche l’idea che il dial. sia proletario e l’italiano capitalista o che sia di sinistra in contrapposizione al fascismo che aveva dichiarato guerra ai dialetti.
Grandi menti come Benedetto Croce, Antonio Gramsci, Giacomo Devoto, Francesco De Sanctis, Di Mauro, P. Paolo Pasolini, hanno lottato a favore dei dialetti, ritenendo la loro soppressione una “barbarie” che avrebbe procurato sterilità alla cultura linguistica. Satriano Lombardi, ritiene che, l’Italiano, non sia un riscatto culturale, ma un suicidio della cultura tradizionale espressa dai dialetti. Il Di Mauro afferma che “l’aggressività antidialettale della Scuola, non ha né basi storico-linguistiche, né ragioni sociologiche positive, né giustificazioni psicopedagogiche”.

Viene da sorridere se ci si rende conto che molte parole che riteniamo italiane di ultima/penultima/terzultima generazione, sono invece prese da diversi dialetti e non ce ne accorgiamo. Per es.: ciào (Ven.,) grissino (Piem.), cotechino (Lomb. Ven. Emil.), pizza, mozzarella (Campania), zafferano (arabo), abbacchio (Lazio, Toscana), camorra (Campania), mafia (Sic.), persona, mondo, satellite (etrusco), bùfalo (osco-umbro), parabola, martire (Bibbia Vulgata) etc.

Per parlare e scrivere bene in dialetto, si deve pensare in dialetto, perchè esso è una forma mentis che bisogna assolutamente possedere. Per volgere l’Italiano in dialetto, non si deve tradurre letteralmente la frase! Bisogna stravolgerla! Le si deve dare la sua gramm., la sua sintassi, e la sua giusta costruzione. Ecco perchè diventa rischioso (come ho già detto) tradurre opere ital. in rima: o tradisci il testo originale o tradisci il dialetto.
Nel Concilio di Tours, voluto da Carlo Magno nell’813 d.c., si stabilì che i vescovi dovessero tenere l’Omelìa nella lingua “rustica”, al fine di farsi capire dai fedeli la cui disobbedienza alle leggi della Chiesa, poteva essere causata dall’incomprensione del latino. L’Atto Ufficiale di quel Concilio dà il via alla nascita delle Lingue Romanze, mentre nel Giuramento di Strasburgo (842) viene sancita la 1ª lingua romanza: il francese.
Di recente ho esaminato un vocab. (non etim.) di dialetti emiliani, redatto da un’unica persona, la quale mette in bocca ai Parmigiani di Parma, parole piacentine, così ribadisco la mia teoria: ogni vernacolista deve occuparsi del dial. del proprio campanile, quello che Dante chiamava “municipalismo”, diversamente si crea confusione e si diffondono notizie inesatte.

Molti dial., cosidetti moderni, definiti dopo il 1500, posseggono una vasta letteratura e tanti documenti, redatti nei secoli scorsi, sono firmati: Conte Tal dei Tali; Eccellenza Signor Vescovo Tal dei Tali; Dottor o Professor Tal dei Tali; Canonico Tale; Avvocato Talaltro; Arcipreti; Marchesi, dunque persone colte. Quindi, ripeto, non è vero che il dialetto era una lingua solo parlata, come non è vero che fosse la “lingua degli ignoranti”. In proposito, posso garantire che, trattati agrari, economici, bandi, anche statuti, non venivano scritti nella lingua dei conquistatori, ma nel diverso lat. di ogni epoca, misto al dial. del luogo.
Dopo la caduta dell’Impero Romano 476 d.C. con la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre, gli idiomi locali, ripresero vigore (ma il fenomeno era cominciato anche prima) e divennero addirittura segno di grande prestigio nelle corti, tanto da essere parlati da tutti. Li chiamavano Il Volgare che ha dato una significativa impronta ai dialetti “moderni”.
Che la lingua fiorentina, sia assurta a lingua nazionale è avvenuto nonostante Dante (De Vulgari Eloquentia) giudicasse il suo dialetto inadatto a diventare la Lingua Italiana, mentre riteneva degno di attenzione allo scopo, il Bolognese, quello spurgato e reso illustre dal poeta ed amico Guido Guinizzelli (1200). Ennesima prova che i dialetti erano anche scritti e da grandi letterati.
Anch’io mi fermo qui. Per ora, però.
Claretta Ferrarini


3 commenti:

  1. Brava Claretta, concordo pienamente con te!
    Franceschina.

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  2. Trovo molto interessante questo articolo e ho imparato delle cose che non sapevo. Mi sono divertito con le parole degli altri dialetti e vorrei conoscerne delle altre. Può la signora Claretta?

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  3. Posso, nella misura in cui non debba anticipare l'etimologia di vocaboli squisitamente dialettali, inseriti nel DEB. Mi limiterò ai termini italiani.

    Spero di soddisfarla dicendole che (tra le altre) dal persiano ci vengono: scacchi e mago.
    Dall'ebraico: Sabato, manna, Osanna, Alleluia.
    Dal bizantino: gondola, basilico.
    Dall'arabo: caffè, zerbino, spinaci, assassino, carciofo.
    Dai germanismi longobardi: guerra, banca, zanna, elmo.
    Dall'iberico (Spagna): lama, sfarzo.
    Grazie per l'interessamento.

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