Avevo scritto un lungo commento che,
purtroppo, è sparito ed ora non ho più tempo di rifarlo. Mi
limiterò soltanto a postare , con un copia e incolla, alcuni stralci
del voluminoso Cap. 1° del Dizionario Etimologico Borghigiano sulle
cui carte ho trascorso parecchie notti.
Il titolo del Cap. è “BREVI
NOTIZIE” (brevi è un eufemismo).
È un’anteprima per
l’importante blog dell’amico Ambrogio Ponzi.
Claretta Ferrarini
“BREVI NOTIZIE”
Il
dialetto non è il
giullare
delle
lingue, né la lingua dei giullari. Non serve solo per far ridere,
raccontando barzellette o recitando farse e commedie; esso è una
lingua dotta, con la quale si può pregare, piangere, scrivere
romanzi, trattati e quant’altro.
Indagare,
studiare, valorizzare, parlare e scrivere il proprio dial. non
deve essere una forma di nostalgia e di rimpianto del passato, ma
dev’essere “cura della parola e della scienza del linguaggio”.
Diventiamo insopportabili e un pò stupidotti, quando vogliamo
convincere noi e gli altri che “una volta” era tutto più bello,
più buono, che c’era più amore e che si andava d’accordo etc. È
una forma di esagerato e, spesso, ipocrita cordoglio che non
condivido. Non deve essere così per il proprio dial.: esso non
appartiene ad un nostalgico “passato”, nel quale ha solo le
radici, ma è un presente vivo e palpitante.
Il
dialetto non è una lingua morta, è
molto più languente l’Italiano, soffocato dai neologismi, dalle
storpiature e dall’anglosassone imperante. È languente all’ultimo
soffio il latino (che non è ancora morto stecchito), ma non il
dialetto. Questo è solo malato e ci sono pochi medici e poche
medicine per curalo, ma ha dentro di sè, una forza tanto potente da
permettergli di tenersi in vita da solo. Se non lo si bastona
continuamente, però.
Chi
teme che il rinvigorirsi dei dialetti,
sia un pericolo per l’Unità Nazionale è in errore. Il dialetto è
una forma di identificazione e di appartenenza, come può esserlo il
proprio cognome, o il cognome della madre, cioè le due famiglie
dalle quali ognuno proviene. L’uomo ha bisogno di “appartenere”.
Per
chi insiste in un’arcaica e scolorita dialettofobia
ritenendo
il vernacolo la lingua degli ignoranti, dichiaro: io, ancor piccola,
sentivo il già vecchissimo dr. Tridenti del 1880 circa, parlare un
bellissimo dialetto e così sentivo parlare tutti i cosidetti
“ricchi” e acculturati di Borgo quando interloquivano in Piazza o
davanti le caffetterie più eleganti. Altresì, non ritengo giusto
lasciarsi trasportare da correnti
dialettomaniacali
perchè tütt
i tròpp i stan par nöžar
e
modus
in rebus.
Dobbiamo dare il giusto senso ad ogni cosa: la
lingua italiana ha unito e deve continuare a farlo, una nazione che
era sparpagliata; la lingua vernacola deve tenere unita una città
prima che si sparpagli.
Via dalla mente anche l’idea che il dial. sia proletario e
l’italiano capitalista o che sia di sinistra in contrapposizione al
fascismo che aveva dichiarato guerra ai dialetti.
Grandi
menti
come Benedetto
Croce, Antonio Gramsci, Giacomo Devoto, Francesco De Sanctis, Di
Mauro,
P.
Paolo Pasolini, hanno
lottato a favore dei dialetti, ritenendo la loro soppressione una
“barbarie” che avrebbe procurato sterilità alla cultura
linguistica.
Satriano Lombardi,
ritiene che, l’Italiano, non sia un riscatto culturale, ma un
suicidio della cultura tradizionale espressa dai dialetti. Il
Di Mauro
afferma che “l’aggressività antidialettale della Scuola, non ha
né basi storico-linguistiche, né ragioni sociologiche positive, né
giustificazioni psicopedagogiche”.
Viene
da sorridere
se ci si rende conto che molte parole che riteniamo italiane di
ultima/penultima/terzultima generazione, sono invece prese da diversi
dialetti e non ce ne accorgiamo. Per es.: ciào
(Ven.,)
grissino (Piem.),
cotechino (Lomb.
Ven. Emil.),
pizza, mozzarella (Campania),
zafferano (arabo),
abbacchio (Lazio,
Toscana),
camorra (Campania),
mafia (Sic.),
persona,
mondo, satellite
(etrusco),
bùfalo
(osco-umbro), parabola,
martire
(Bibbia Vulgata)
etc.
Per
parlare e scrivere bene in dialetto,
si
deve pensare in dialetto, perchè esso è una forma mentis che
bisogna assolutamente possedere.
Per volgere l’Italiano in dialetto, non si deve tradurre
letteralmente la frase! Bisogna
stravolgerla! Le
si deve dare la sua gramm., la sua sintassi, e la sua giusta
costruzione. Ecco perchè diventa rischioso (come ho già detto)
tradurre opere ital. in rima: o
tradisci il testo originale o
tradisci il dialetto.
Nel
Concilio di Tours,
voluto da Carlo Magno nell’813 d.c., si stabilì che i vescovi
dovessero tenere l’Omelìa nella lingua “rustica”, al fine di
farsi capire dai fedeli la cui disobbedienza alle leggi della Chiesa,
poteva essere causata dall’incomprensione del latino. L’Atto
Ufficiale di quel Concilio dà il via alla nascita delle Lingue
Romanze, mentre nel Giuramento di Strasburgo (842) viene sancita la
1ª lingua romanza: il francese.
Di
recente ho esaminato un vocab. (non etim.) di dialetti emiliani,
redatto da un’unica persona, la quale mette in bocca ai Parmigiani
di Parma, parole piacentine, così ribadisco la mia teoria: ogni
vernacolista deve occuparsi del dial. del proprio campanile, quello
che Dante chiamava “municipalismo”, diversamente si crea
confusione e si diffondono notizie inesatte.
Molti
dial., cosidetti moderni,
definiti dopo il
1500, posseggono una vasta letteratura e tanti documenti, redatti nei
secoli scorsi, sono firmati: Conte Tal dei Tali; Eccellenza Signor
Vescovo Tal dei Tali; Dottor o Professor Tal dei Tali; Canonico Tale;
Avvocato Talaltro; Arcipreti; Marchesi, dunque persone colte. Quindi,
ripeto, non è vero che il dialetto era una lingua solo parlata, come
non è vero che fosse la “lingua degli ignoranti”. In proposito,
posso garantire che, trattati agrari, economici, bandi, anche
statuti, non venivano scritti nella lingua dei conquistatori, ma nel
diverso lat. di ogni epoca, misto al dial. del luogo.
Dopo
la caduta dell’Impero Romano 476 d.C. con
la deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre,
gli idiomi locali, ripresero vigore (ma il fenomeno era cominciato
anche prima) e divennero addirittura segno di grande prestigio nelle
corti, tanto da essere parlati da tutti. Li chiamavano Il
Volgare
che ha dato una significativa impronta ai dialetti “moderni”.
Che la lingua fiorentina, sia assurta a lingua nazionale è avvenuto nonostante Dante (De
Vulgari Eloquentia) giudicasse
il suo dialetto inadatto
a diventare la Lingua Italiana, mentre riteneva degno di attenzione
allo scopo, il Bolognese,
quello spurgato e reso illustre dal poeta ed amico Guido
Guinizzelli (1200).
Ennesima prova che i dialetti erano anche scritti e da grandi
letterati.
Anch’io
mi fermo qui. Per ora, però.
Claretta Ferrarini
Brava Claretta, concordo pienamente con te!
RispondiEliminaFranceschina.
Trovo molto interessante questo articolo e ho imparato delle cose che non sapevo. Mi sono divertito con le parole degli altri dialetti e vorrei conoscerne delle altre. Può la signora Claretta?
RispondiEliminaPosso, nella misura in cui non debba anticipare l'etimologia di vocaboli squisitamente dialettali, inseriti nel DEB. Mi limiterò ai termini italiani.
RispondiEliminaSpero di soddisfarla dicendole che (tra le altre) dal persiano ci vengono: scacchi e mago.
Dall'ebraico: Sabato, manna, Osanna, Alleluia.
Dal bizantino: gondola, basilico.
Dall'arabo: caffè, zerbino, spinaci, assassino, carciofo.
Dai germanismi longobardi: guerra, banca, zanna, elmo.
Dall'iberico (Spagna): lama, sfarzo.
Grazie per l'interessamento.