giovedì 23 gennaio 2025

Il Carnevale smascherato.

Frate e monaca suonano e danzano – miniatura da libro d’ore, primo quarto del XIV secolo – Londra, British Library.


Nel mondo antico
Un antecedente del carnevale è stato rinvenuto nei Saturnalia romani (17-23 dicembre) feste dedicate al dio Saturno, che alternavano sacrifici beneauguranti a banchetti, giochi, libagioni e scambi di doni. Tali festeggiamenti, il più delle volte, sfociavano in eccessi, in cui era consentito persino lo scambio di ruoli indossando gli abiti altrui. A Natale, accanto alle “pie” pratiche, si organizzavano banchetti, si giocava a dadi (distrazione condannata dai predicatori). In Francia, poi, i chierici di Saint-Pierre de Lilla, eleggevano una sorta di “vescovo dei folli” e poi si concedevano abbondanti bevute. Il 1° gennaio ci si travestiva e si folleggiava. 

I costumi preferiti erano quelli della giovenca e del cervo. 
Per l’Epifania, almeno in Francia, era molto amata la “questua dell’aguilaneuf” (“Al vischio l’anno nuovo!): augurio che i bambini poveri ripetevano ai ricchi chiedendo l’elemosina). Ricordando la visita dei Magi al Bambino Gesù, si preparava una torta nella quale era inserita una fava: chi la trovava era il re della festa.
I Concili della Chiesa romana si diedero da fare per sopprimere i bagordi: quello di Auxerre (573-603) proibì di travestirsi da cervo e di fare regali ‘diabolici’ (sic!); quello di Roma del 743 biasimò le feste di Bacco del 25 dicembre (Brumalia), ancora di moda. Dopo varie condanne, anche le autorità ecclesiastiche presero ad accettare questo genere di festività, scorgendovi una valvola di sfogo all’esuberanza popolare.

Il Carnevale (festa il cui nome sembra derivare dal latino ‘carnem levare’, cioè ‘abolire la carne’) metteva fine ai bagordi, introducendo nella Quaresima che arrivava subito dopo e che per quaranta giorni imponeva preghiera e penitenza in preparazione della Pasqua.

Il Carnevale, con la sua carica irriverente, si caratterizzava come il momento del riso e della follia, dello scherzo, della materialità e dell’abbondanza. Era anche l’occasione per dissacrare l’autorità, almeno temporaneamente. Ecco perché questa festa era così amata dal popolo. Protetti dalla maschera, anche i più umili potevano per un momento dimenticare la loro condizione e diventare “altri”. Il clero vedeva nel Carnevale un elemento potenziale di lascivia e di immoralità, come pure di sovversione. Provò a sopprimerlo, ma non vi riuscì mai.

La risata: un po’ di storia

Sul tema della “ilarità”, in un primo momento la Chiesa procede alquanto sospettosa. I Padri della Chiesa tendono ad essere abbastanza critici verso le risate, e, soprattutto, verso quegli spettacoli (per lo più pagani) che miravano a suscitarle. Tertulliano critica durissimamente la commedia; Ambrogio ritiene che il riso sia sconveniente e sconsigliabile in (quasi) tutte le circostanze; Basilio di Cesarea sostiene che, se un buon cristiano pensasse veramente alle miserie del mondo, avrebbe ben poco da ridere (…e quindi, se ride lo stesso, vuol dire che è uno sciocco superficiale). Più o meno sulla stessa linea, Agostino motteggia che, “finché siamo in questo mondo, non è tempo di ridere (se non vogliamo piangere dopo)”… pur ammettendo che, sicuramente, c’è tipo e tipo di risata.

Clemente Alessandrino, potendo, avrebbe condannato all’esilio perpetuo tutti quei comici che inducevano nel pubblico un riso basso e grossolano (ma non condanna, ad esempio, il riso innocente e buono). Già all’epoca dei Padri, comunque, c’erano delle aperture: Girolamo, ad esempio (pur non amando affatto la gente ridanciana), evidenziava la differenza tra il riso volgare di un ubriacone e il riso “sano” e moderato che – ad esempio – viene usato dai maestri, per catturare l’attenzione dei loro giovani studenti.

Del resto, la società dell’epoca (e, successivamente, anche la società medievale) conosceva bene quel topos, mutuato da Aristotele, secondo cui il riso è proprio della natura umana. Insomma, è uno di quegli elementi che differenziano un essere umano da un animale: gli animali non ridono; gli uomini sì. Nei primi secoli della sua vita, la Chiesa, dunque, guarda il riso con un certo sospetto.

L’uomo medievale sarà pure risibilis, ma monaco medievale (cioè, il buon cristiano per eccellenza) viene definito, non a caso, is qui luget: colui che piange. Piange sui suoi peccati, sulle sciagure del mondo, sulle blasfemie e sulle bestemmie, sulle sofferenze di Nostro Signore: piange, in generale, e il suo pianto è una forma di preghiera e di espiazione.

Le prime regole monastiche sono tutte abbastanza rigide nel condannare il riso. Nei primi documenti a noi pervenuti (V secolo), il riso è vietato principalmente perché rischierebbe di spezzare il silenzio monastico e distrarre dalla preghiera. 
Nel VI secolo, Benedetto fa uscire il riso dal campo del silenzio e lo inquadra più che altro come un segno di scarsa umiltà (un bravo monaco non ride, e soprattutto non ride degli altri). Dunque, suggerisce di evitare chiacchiere atte a suscitare le risate, e, nel raccomandare ai suoi monaci la preghiera quotidiana, suggerisce se possibile di accompagnarla con pianti e gemiti.

La Regola del maestro (prima metà del VI secolo) sottolinea come il corpo umano sia dotato di tre “filtri”: occhi, orecchie e bocche. E così come gli occhi devono chiudersi di fronte a immagini impure, così come le orecchie devono rifiutarsi di ascoltare discorsi vani, così, allo stesso modo, la bocca non deve assolutamente lasciar filtrare all’esterno del corpo i discorsi sconvenienti… e le risate, “una delle peggiori lordure che possano sporcare la bocca di un monaco”.

Ritratto-del-bufone-Gonella
Uno che si è dedicato parecchio allo studio di questo argomento è il famoso Jacques Le Goff, autore di una serie di saggi “a tema”, che, in Italia, sono stati pubblicati da Laterza sotto il titolo di I riti, il tempo, il riso.
Ebbene: secondo Le Goff, nel monachesimo altomedievale si nota una marcata accentuazione della negatività del riso, cui viene opposto, per contro, il valore salvifico del pianto. Del resto, il versetto evangelico “beati coloro che piangono, perché saranno consolati” sembrava confermare con una certa autorevolezza questo atteggiamento.
Solo nel XII secolo cominciamo a trovare traccia di una rivalutazione del riso in senso positivo. Dopo un’eclisse di diversi secoli, nei testi dei teologi ricompare la distinzione tra le risate cattive (maligne e derisorie) e le risate buone (di colui che ride per gioia, magari perché colmo di beatitudine).

A questo punto, Le Goff fa un interessante approfondimento di natura linguistica, sottolineando come già nell’Antico Testamento esistesse una distinzione (proprio a livello terminologico, dico) fra queste due tipologie di riso. Nella Bibbia, sâkhaq è il riso buono, gioioso e sano (quello da cui deriva anche il nome di Isacco); lâag, invece, è il riso cattivo, di chi si prende gioco e denigra. Anche il Greco – sottolinea Le Goff – ha questa distinzione: gelân è il riso buono, katagelân quello cattivo.

Il Latino invece no: il Latino conosce solo il risus, accomunando sotto un’unica parola il riso del bambino che scherza con la sua mamma e il riso assassino del serial killer che sta per ammazzare la sua vittima. Persino il subrisus latino, per buona parte del Medio Evo, ha indicato il sorrisetto cattivello di chi ridacchia maligno sotto i baffi, trasformandosi in sorriso “buono” solo all’inizio del XII secolo.

E sicuramente non è un caso che, proprio in quel periodo, il Medioevo abbia imparato a conoscere un nuovo, bellissimo, tipo di risata, la cui ri-scoperta si riflette, nella re-introduzione di un termine fino ad allora poco usato: hilaritas.

Un importante studio di Le Goff sul medioevo, Il rito, il tempo, il riso è utile per mostrare il cambiamento della mentalità medievale all’origine della cultura moderna proprio facendo riferimento al mondo del gioco e del riso, sia nei conventi che nel mondo urbano e contadino.

Le Goff cita uno studio di Fernand Vercauteren, in cui, carte alla mano, si sottolinea come, a partire dalla fine del secolo XI, nei documenti notarili che trattavano donazioni appaia con frequenza l’espressione hilaris dator. Hilaris dator è il donatore sorridente, il benefattore che sgancia soldi volentieri, spontaneamente, col sorriso sulle labbra: un sorriso che evidentemente non è un sorrisetto assassino (…anche perché… chi accetterebbe mai qualcosa da uno che ti fissa in quella maniera?), ma il sorriso pacifico e amichevole di chi ti osserva con benevolenza. A quell’altezza cronologica, dunque, cominciavano a camminare per le città del Medioevo delle persone benevole e dall’aria ilare – persone che noi definiremmo gioiose, felici. Ridenti, ma non ridanciane.
Persone “col sorriso sulle labbra”, ecco; non persone coi lineamenti sformati da un attacco di risate incontrollabili. Che è già diverso.

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Guardando all’arte medievale, Le Goff sottolinea come non manchino assolutamente esempi positivi di persone ridenti, o sorridenti. 
Gli pare significativo l’esempio di numerosi cicli di affreschi dedicati alla parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte: in molte di queste raffigurazioni, le prime sorridono di un sorriso composto, mentre le seconde sghignazzano senza contegno.
Inoltre: è pur vero – sottolinea Le Goff – che i monaci medievali dovevano evitare il riso cattivo, il riso derisorio. Eppure, è altrettanto vero che esistono prove storiche di come i monaci fossero soliti scherzare fra di loro, godendo, con ogni probabilità, dell’approvazione (quantomeno tacita) dei loro superiori.

Se, per dimostrare questa tesi, non bastassero i tanti scarabocchi, le tante miniature a margine dei documenti… se anche non bastasse tutto questo, dicevo, come potremmo non arrenderci all’evidenza, di fronte all’esistenza degli joca monachorum? Si trattava, in buona sostanza, di raccolte di barzellette e indovinelli, perlopiù a tema sacro, con cui i monaci si intrattenevano nelle loro ore libere. Quindi, dopo che erano state recitate tutte le preghiere e dopo che era stato rispettato il rigoroso silenzio monastico.

Erano l’equivalente dei nostri giochi di enigmistica – indovinelli e rompicapi per tenere allenata la mente – oppure, erano barzellette e storielle lievi a tema sacro, utili per memorizzare in maniera gioiosa fatti eventi della Storia della Chiesa (meglio ancora se strani, buffi, miracolosi e/o eccezionali).
Quindi – conclude Le Goff – non è che il monaco medievale, l’homo lugens per eccellenza, fosse poi così disperatamente afflitto ventiquattr’ore su ventiquattro!

Per buona parte del Medioevo, le regole monastiche hanno duramente condannato il riso, ma ci sarebbe anche da chiedersi fino a che punto il riso “peccaminoso” tanto temuto nell’Alto Medioevo fosse lo stesso riso a cui pensiamo noi moderni. Perché se il riso che veniva vietato da san Benedetto era lo stesso riso cattivo di chi ti ride alle spalle quando fai un errore, beh, allora pure io concordo con la Regola: un buon cristiano non deve ridere; non deve ridere in quella maniera.

Certo, certo: ci vorranno alcuni secoli prima che la “nuova” morale cristiana cominci a parlare del riso buono e ad esaltarne le sue potenzialità (e questo è un dato di fatto)… ma chissà se era poi vero, che nell’Alto Medioevo si riteneva che un buon cristiano non dovesse ridere mai, mai, mai.
Le Goff, provando a rispondere a questa domanda, concludeva, in sostanza, con un “mah. Chissà”.
L’impressione generale è che, nei tempi e nei modi giusti, i cristiani medievali (dopo aver cristianamente pregato, meditato e pianto)… fossero anche capaci di ridere e divertirsi un sacco!

Fausto Negri 



2 commenti:

  1. Bravo, Fausto! E grazie.

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  2. PS Mi sovviene “Il nome della rosa”, di Umberto Eco, in cui si cerca di impedire la lettura dell'ultima copia rimasta del secondo libro della “Poetica” di Aristotele, che tratta della commedia e del riso.

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