venerdì 13 febbraio 2015

Si fa presto a dire fame


Nell'era del cibo, nella sua patria di elezione, "si fa presto a dire fame"e così in tanti altri luoghi, ma non in tutti. Lo si dice senza conoscere la fame.
Questo saggio di Franco Bifani deve farci riflettere, ogni volta che diciamo "ho fame".


Questione di paralleli e meridiani.

La lettura di una lettera, su di un blog, circa il valore della vita, mi ha portato a ripensare alla fortuna che ho avuto, come centinaia di milioni di altri, di essere nato e cresciuto a certe latitudini e longitudini. 
Mi ricordo di un motto: Vivre est encore le meilleur parti ici-bas; nonostante tutto, sono d'accordo, anche se l'arte del vivere, per tanta gente, somiglia più ad una continua, strenua, inutile e frustrante lotta contro la Morte, che non ad una lieve danza; e la conclusione finale consiste sempre nel soccombere ad un destino infame. 
Sembra quasi che metà dell'umanità esista per vivere, l'altra, invece, per essere vissuta ed abusata. 
Per miliardi di individui, purtroppo, nascere è umano, continuare a vivere è diabolico. “Poscia, più che il dolor, potè la fame”. 
Ma i veri poveri, non fanno rumore. Beati i poveri, perché vostro è il regno dei cieli, aveva predicato Qualcuno, 2mila anni orsono. Ma, su questa terra, i poveri restano pur sempre solo dei miserabili paria, nell'attesa di assidersi alla destra di Dio, ma a pancia vuota. Ci saranno sempre dei poveri, perché ci saranno sempre dei ricchi e potenti e, soprattutto, degli indifferenti. 
Chi è sazio, non capirà mai chi è affamato.
Ricorderò sempre un docu-film, sui poveri, affamati, assetati, senza tetto, vestiti di stracci, nell'Africa Nera, che seguii, una sera di tanti anni fa, all'ora di cena. Mi si ghiacciò il cibo nello stomaco. 
Non dimenticherò mai un bimbo, che avrà avuto un anno, stremato dalla fame, con la bocca ed il magro sederino ricoperti, letteralmente, da nugoli di mosche, enormi e fameliche, che gli suggevano e sottraevano i miseri escrementi ed una pappetta, che lui non riusciva più nemmeno a deglutire, e che gli sbavava fuori. Aveva gli occhi vitrei, impietriti in una fissità vacua, agghiacciante, animalesca. 
Il missionario, che cercava di imboccarlo, ad un certo momento, desistette: “Sta morendo...”, sentenziò, e lo depose tra le braccia della madre, che se lo attaccò ad un seno, vizzo e secco, che secerneva qualche gocciola sanguinolenta. Un'altra madre, disperata, che altre donne cercavano, inutilmente, di consolare e di fermare, voleva tornare nella foresta, all'albero sotto cui aveva depositato un suo piccino di due anni, perché, carica di altri tre, non riusciva più a trasportarlo fino all'infermeria della missione. Lanciava dei richiami queruli, sommessi, sconsolati; ma le altre donne la trascinavano via, e le ripetevano: “Smettila, non lo troverai mai più, lo sai anche tu che se lo sono mangiato i leoni!”. 
Terribile, disumano! 
Io sono tra quei miliardi di fortunati sul globo, ad esser nato nel Nord ricco del pianeta, in Europa, dalla nascita nutrito, dissetato, abbigliato, riparato da un tetto. Dovrei pensarci più spesso, insieme al resto dell'umanità satolla, persino del superfluo, a discapito di miliardi di altri esseri umani, che, ad ogni minuto secondo, muoiono, senza aver mai assaporato la vita, trascinandosi dietro un povero mucchietto di ossa, un corpo rinsecchito, di poche decine di kg. 
Eppure, tanti di quei bimbi riescono a ridere alle telecamere, con quegli occhi grandi, terribili, assetati di vita, che accusano, in silenzio, il resto del mondo; riescono persino a giocare tra di loro. Le donne camminano tra l'immondizia, con incedere regale, dignitose, come principesse; e gli uomini non lasciano scivolare una sola lagrima dagli occhi spenti. 
Ma poi, anch'io, finisco per dimenticare, mangio, bevo, vado a comprarmi qualche capo d'abbigliamento, un oggetto superfluo, e continuo a vivere da fortunato che si è ritrovato nella parte ricca del mondo.

Franco Bifani


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