“Servizi sommari nella ricostruzione della vicenda, imprecisi nel riportare la notizia, frettolosi nel rappresentare le ragioni dei provvedimenti, inopportuni nei toni drastici”. Bocciato all’esame di giornalismo. Spiace, dopo trentasei anni di professione. Trentasei anni gettati via a raccontare storie e tragedie, a tenere lezioni all’università e scrivere libri. Tempo perso, davanti ad un verdetto così netto. Peccato che chi lo ha vergato non abbia nessun titolo per farlo e sia un magistrato chiamato a dirimere un’importante questione: se io avessi o meno offeso l’onore di due suoi colleghi del Tribunale minorile di Bologna nei miei servizi sul caso Bibbiano.
Ebbene, lo stesso giudice così drastico nella valutazione delle mie capacità narrative, ammette però che il “nucleo delle notizie diffuse appare sostanzialmente rispondente al vero”, per cui vale il diritto di cronaca e non sarò processato, come d’altronde già avevano chiesto i due pubblici ministeri incaricati delle indagini preliminari.
Insomma, a parte il fatto di essere un giornalista balordo, ho ragione. Quel che ho detto è vero e non offensivo. Ciao a tutti. È stato bello. Ma non dovrebbe essere così.
Prima di tutto perché se mi metto a correggere la grammatica, la sintassi e anche la logica espositiva di provvedimenti giudiziari, ordinanze di custodia e sentenze, consumo un tir di matite rosse. Per cui, ad ognuno il suo mestiere: fate bene il vostro che al mio ci penso io. Un giudice deve stabilire se c’è un reato e in base a quello l’eventuale pena, astenendosi da tiratine morali e valutazioni qualitative su un lavoro che non è il suo. Ho sbagliato, mi processi o mi condanni. Ho ragione, mi assolvi. Stop, finita lì, non chiedo altro e non devi darmi altro. Se scrivo bene o male lo stabiliranno i lettori, i toni più o meno forti li valuterà il mio direttore. A nessun altro riconosco questa autorità. La Costituzione italiana non prevede che qualcuno possa sindacare il mio lavoro, dando ovviamente per scontato il rispetto della legge e delle norme deontologiche.
Tutto ciò non per contestare il sacrosanto diritto di critica: trentasei anni di giornalismo mi hanno allenato a sopportare qualsiasi recriminazione. Serve però ad introdurre un tema più importante: quello dei costanti attacchi portati alla libertà d’informazione in questo Paese. Attacchi subdoli, perché non basati su un dibattito pubblico, che coinvolga i giornalisti e la politica, nella sua accezione più nobile e alta. Sono invece atti di guerriglia non convenzionale, che si avvalgono di strumenti creati per altri scopi: querele temerarie, cause civili, richieste di risarcimento. Per spiegarmi, faccio riferimento alla vicenda da cui siamo partiti, ma ce ne sarebbero altre decine.
Le bacchettate per un servizio che diceva la verità le ho subite dopo la denuncia per diffamazione da parte di due magistrati (non è un errore, è vero) ai quali avrebbe dovuto essere chiaro sin dall’inizio che non c’erano gli estremi per sentirsi legalmente offesi, che non c’era trippa per gatti. Per carità, ognuno ha il diritto a tutelarsi, ma quando è in possesso delle competenze necessarie a valutare gli aspetti giuridici della narrazione, quando da solo dovrebbe essere in grado di pervenire alle stesse conclusioni a cui è giunto il suo collega che ha disposto l’archiviazione, dovrebbe avere il buon gusto di non intasare i tribunali di cartaccia. A rendere più fosco il quadro è il fatto che anche i due pubblici ministeri che per primi si sono trovati ad esaminare l’esposto dei loro colleghi hanno immediatamente capito che non c’era nulla di illegale. Ed hanno scritto: questo processo non s’ha da fare. Fine, avrebbe detto chiunque.
Invece no. I tribunali sono stracarichi di lavoro, i processi in Italia sono di straordinaria lentezza perché il numero delle cause è sproporzionato rispetto alle risorse (lamentela che rimbomba ad ogni apertura di anno giudiziario) eppure due magistrati non si sono fermati, si sono opposti all’archiviazione, hanno voluto l’udienza camerale. Avvocati convocati davanti ad un giudice, notifiche che vanno e vengono attraverso l’Italia, polizia giudiziaria e cancellieri gravati di ulteriori compiti. Costi, per gli imputati e per la collettività. Al solo scopo di arrivare al medesimo risultato: questo processo non s’ha da fare. Sono sincero, mi hanno un po’ deluso. Avrebbero dovuto aver maggiormente a cuore il sistema che li stipendia!
Consentitemi d’introdurre, lievemente e con molta circospezione, attento a non offendere la suscettibilità di qualcuno, qualche interrogativo. Saremmo arrivati a questo punto se chi ha presentato una querela basata sul nulla oggi fosse costretto a rifondere allo Stato i denari spesi per questo procedimento e agli imputati (il sottoscritto e i direttori dei tre più importanti telegiornali nazionali) quanto hanno dovuto riconoscere ai loro difensori? O addirittura a risarcire gli imputati del tempo sprecato a scrivere memorie, ad incontrare avvocati, a giustificarsi all’interno dell’azienda, del danno d’immagine subito (perché insomma, se ti hanno denunciato qualcosa avrai pur fatto)?
Basterebbe questo, a mio avviso, per sgravare di un po’ di lavoro il sistema giustizia, con benefici per tutti.
Occorre cambiare. La mia proposta si articola in quattro semplici punti.
Primo punto: chi presenta una querela deve dimostrare di pagare in modo trasparente il proprio avvocato. I mafiosi ad esempio sono soliti “tenere a stipendio” (termine gergale che mi è stato spiegato da un appartenente all’ordine forense e che non vuole risultare assolutamente offensivo) i propri difensori, incrementando le dazioni solo in occasione di processi particolarmente impegnativi. Ovvio che una querela in più o in meno non incida sulla “mesata”.
Secondo punto: chi querela, nel caso non ottenga ragione, deve risarcire le spese processuali allo Stato, le spese legali del querelato e riconoscergli anche qualcosa per la rottura di scatole a cui lo ha costretto. Sarei ricco! Ma soprattutto questo permetterebbe ai colleghi più giovani, che non hanno alle spalle grandi aziende editoriali, spesso sono freelance e quindi meno tutelati, di svolgere con serenità il loro lavoro e potersi adeguatamente difendere in caso di querele intimidatorie, che io ritengo veri e propri tentativi d’estorsione.
Terzo punto: è ambizioso perché contempla un’evoluzione morale, parola che oggi spaventa più d’ogni altra. Tutti dovrebbero rendersi conto che l’informazione è un valore per la democrazia e che, al tempo stesso, è regolata da norme a cui i giornalisti professionisti sono costretti ad attenersi. Non ha bisogno di essere “giudicata” da soggetti terzi, che evidentemente non hanno le competenze necessarie. Pensate che all’inizio del processo Aemilia contro la ‘ndrangheta, ben due camere penali hanno istituito un osservatorio sull’informazione giornalistica. Cioè gli avvocati si ritenevano legittimati a dire la loro sul come stavamo svolgendo la nostra professione: è come se io, dando conto di una sentenza, attribuissi una pagella all’operato del giudice e degli avvocati difensori, magari senza nemmeno conoscere bene la procedura penale. Quindi, se l’informazione è un valore per la democrazia, tutti dovrebbero contribuire ad agevolare il lavoro dei giornalisti (nel rispetto del proprio ruolo, va da sé) e non ad esempio sobillare i detenuti ad attaccare la stampa.
Quarto punto: qualora venissero applicati e resi operativi i tre precedenti, accetterei in caso di condanna anche di essere sottoposto ai lavori forzati. E tenete conto che ho scelto questa professione perché, come ha detto Luigi Barzini junior “Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare”.
Per tornare alle critiche iniziali, la mia maestra Rosa, che ha 96 anni, mi legge e mi ascolta: lei dice che vado bene. Mi basta.
(28 gennaio 2021)
Solidarietà con Luca Ponzi
RispondiEliminaFranca Spada
Bravo Luca, siamo con te.
RispondiEliminaAngelo e Anna Orzi
Grande Luca!!!
RispondiEliminaSolidarietà a un bravissimo giornalista che ci mette la faccia e non solo. Queste 2 denunce sono lo specchio di questo nuovo mondo: al rovescio e a molti tratti tratti sbagliato. La serietà e l'onestà oggi non sono ripagate, anzi. Cammina diritto per la tua strada e scordati di loro, noi camminiamo affianco a te. Grazie Luca.
RispondiEliminaHo dei tempi stretti, ma ho letto tutto. Mi piace l'articolazione dei vari punti di questa autodifesa (se così si può chiamare), non c'è il rancore del torto subito, ma l'esposizione logica ed obiettiva degli argomenti in cui traspare tuttavia quella sensibilità che in un giornalista non deve mai mancare. Complimenti e buon proseguimento.
RispondiEliminaConcordo su tutto ciò che hai esposto, Luca ed hai tutta la mia solidarietà. In questa tua infelice esperienza, c'è, persino, qualche cosa di grottesco: CHE DUE MAGISTRATI NON SI RENDANO CONTO CHE NON CI SONO GLI ESTREMI per denunciare la persona che, secondo loro, li ha offesi, è tragicomico e assai bislacco.
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