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sabato 24 settembre 2022

Colori e profumi: camminando tra le piante spontanee della golena

 

L’autunno, iniziato da appena pochi giorni, porta la golena e le rive del Grande fiume a colorarsi con le tinte suggestive dei fiori e delle piante di stagione, in attesa dello spettacolare foliage che dipingerà le terre del Po tra qualche settimana. Camminare, lentamente, tra le terre del vecchio Eridano, in ogni tempo e in ogni stagione, porta a poter osservare ciò che il Creato è in grado di donare. Piante e fiori che rendono sempre spettacolari le rive, gli argini e i boschi del Grande fiume.

In molti casi anche piante ed erbe commestibili, capaci di dare grandi soddisfazioni in cucina e di dare di nuovo vita a piatti poveri ma gustosi, che un tempo finivano sulle tavole delle famiglie della campagna, tanto in terra emiliana quanto in terra lombarda. In tempi, quelli attuali, in cui purtroppo si fa sempre più reale l’esigenza di dover tirare la cinghia, può dare un piccolo aiuto anche la ripresa di piatti semplici, ma gustosi, nati dalle erbe di campo. Quelle di cui il fiume, da sempre fonte di vita per la sua gente, è ricco.

Spettacolari, in questi giorni, sono i colori (giallo intenso) del Topinambur, da considerare un ortaggio a tutti gli effetti, pianta perenne erbacea originaria del Nord America (Canada in particolare), conosciuto anche con i nomi di Carciofo di Gerusalemme, Girasole del Canada, ma anche Patata del Canada, Rapa Tedesca, Tartufo di Canna, ed Elianto Tuberoso. 

Il tubero è utilizzato in gastronomia ed il nome è forse derivato dalla francesizzazione del nome della tribù sudamericana dei Tupinamba, alcuni membri della quale furono esposti a Parigi nel 1613. I venditori della pianta sfruttarono il grande scalpore suscitato da questo evento rinominando il prodotto, proveniente in realtà dal Canada, per aggiungere del fascino esotico. 

A colpo d’occhio, il topinambur può essere scambiato per una patata maggiormente globulosa e dura: le differenze con il tubero per antonomasia non finiscono qui. Infatti, il topinambur è meno nutritivo rispetto alla patata, oltre a contenere una quantità importante di inulina, a scapito dell’amido. Ed è proprio la scarsità di amido che penalizza il topinambur: infatti, la coltivazione di questo tubero è nettamente diminuita a vantaggio degli ortaggi più produttivi ed amidacei. Il Topinambur appartiene alla famiglia delle Compositae Tubuliflorae: è una pianta erbacea perenne il cui fusto può raggiungere i 2 o 3 metri d’altezza e, nella parte apicale, si presenta ispido. 

Le foglie sono sia alterne che opposte: nella parte più bassa del fusto sono in genere alterne, mentre quelle opposte si riscontrano nella parte sovrastante; ancora, le foglie, molto acuminate ed appuntite, presentano margine seghettato e superficie ruvida di color verde scuro, rigato da marcate nervature. I fiori gialli, similmente ai girasoli, si rivolgono al sole, seguendone il cammino con i capolini: non a caso, i fiori di topinambur vengono spesso scambiati, appunto, per girasoli.

Il topinambur viene coltivato, chiaramente, per la radice tuberizzata (le radici sono molto ramificate e sono provviste di rizomi tuberiferi) che è globulosa, presenta una forma tozza ed è avvolta da una pellicola piuttosto rigida e chiara. La pianta di topinambur non è molto esigente in termini di ambiente e terreno: si adatta, infatti, a tutti i climi, nonostante prediliga quelli temperati-caldi, e cresce facilmente in ogni tipo di terreno, dal più arido, al più umido. 

A livello alimentare, fornisce pochissime calorie ed è miniera di inulina, il che lo rende particolarmente indicato per i diabetici. Non a caso, è stato osservato che la glicemia, in seguito ad un pasto di soli topinambur, rimane invariata: ciò significa che la ghiandola pancreatica non viene stimolata a produrre insulina per equilibrare il tasso di glucosio nel sangue. I topinambur sono costituiti da una buona quantità di acqua, glucidi (tra cui fruttosio, capace di non gravare sull’attività pancreatica), vitamina A e tracce di vitamine del gruppo B, Sali minerali e aminoacidi quali asparagina ed arginina. 

Secondo gli studi del professor Boas, il topinambur è fonte di biotina (vitamina H), importantissima nella prevenzione di stanchezza fisica, dolori muscolari ed inappetenza. Il topinambur viene generalmente preparato secondo le medesime modalità delle patate: può essere bollito in abbondante acqua salata o, ancor meglio, cotto a vapore, prestandosi così alla preparazione di gustosi – e nel contempo semplici – contorni; in alternativa, può essere anche cucinato in padella o fritto. Dopo la cottura, sia questa in acqua, in padella, in forno o nell’olio, il sapore del topinambur risulta delicato e dolciastro. 

Una delle ricette più note e semplici è quella del Purè di patate e topinambur che si prepara con 1 kg di patate, 500 g di topinambur, 50 g di parmigiano grattugiato, un etto di burro, 40 cc di latte, sale e noce moscata (quanto basta). Per la preparazione è sufficiente lavare e lessare le patate e i topinambur separatamente, sbucciarli e passarli con lo schiacciapatate. Si pone poi sul fuoco, con la fiamma al minimo, all’intermo di una casseruola con i tuberi schiacciati, unendo quindi il formaggio, il burro e il latte, regolando sale e noce moscata facendo cuocere lentamente il purè fino ad una consistenza vellutata. E’ ottimo in particolare per accompagnare arrosti.

 Come anticipato un altro nome con cui è conosciuto il topinambur è “carciofo di Gerusalemme”, denominazione non casuale visto che il sapore richiama quello del carciofo. Tra le ricette più famose a base di topinambur ricordiamo: risotto al topinambur e flan di topinambur. Può essere utilizzato anche crudo, grattugiato direttamente nelle insalate. Aggiungendo un po’ di limone alla polpa del topinambur finemente affettata o grattugiata, l’effetto dell’inulina viene potenziato. 

È bene ricordare che l’involucro esterno che avvolge il tubero risulta molto digeribile, perciò è sconsigliato eliminarlo. Il topinambur rientra tra gli ortaggi sapientemente sfruttati dalla fitoterapia e, come già anticipato, questo tubero dovrebbe essere apprezzato soprattutto dai diabetici per la consistente quantità di inulina presente. Ma le proprietà benefiche nascoste del topinambur non si fermano qui: le sue radici, tipicamente tuberizzate, sono reputate galattogene, quindi in grado di aumentare e promuovere la secrezione di latte nelle donne che allattano il loro piccolo al seno. 

Ancora, l’estratto di topinambur si rivela utilissimo in caso di sovrappeso, configurandosi come un valido ausilio per dimagrire: non a caso, il consumo di topinambur non solo facilita la digestione, ma favorisce anche la sensazione di sazietà, frenando gli attacchi incontrollati di fame. Del topinambur, si sfruttano anche le foglie, utili per alleggerire i disturbi legati all’insufficienza cardiaca. Inoltre non forma glutine, di conseguenza è adatto alle diete per celiaci. Per le alte concentrazioni di inulina, l’assunzione di topinambur può causare problemi di meteorismo ed eccessiva flatulenza. Per limitare il fenomeno, l’intestino andrebbe abituato gradualmente iniziando col consumo di piccole porzioni, da aumentare poi col passare del tempo.

 

Con grande facilità, in questi giorni d’autunno, è facile incontrare, tra colori che spaziano tra il bianco e il celeste, tra le golene del fiume, i Settembrini, noti anche come Astro amello, una piccola pianta erbacea, perenne spontanea dei prati italiani appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Il nome del genere (Aster) deriva dal greco e significa (in senso ampio) “fiore a stella”. 

Fu introdotto da Linneo nel 1735, ma sicuramente tale denominazione era conosciuta fin dall’antichità. Dioscoride fa riferimento a un Astro attico (un fiore probabilmente dello stesso genere) Il termine specifico (amellus) si trova per la prima volta nelle Georgiche (libro IV, versi 271-280) di Virgilio (70 a.C. – 19 a.C.), ma l’etimologia rimane oscura e incerta. Il binomio scientifico attualmente accettato (Aster amellus) fu proposto da Linneo (1707 – 1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione Species plantarum del 1753]. 
La famiglia di appartenenza della Aster amellus (Asteraceae o Compositae, nomen conservandum) è la più numerosa del mondo vegetale, comprende oltre 23000 specie distribuite su 1535 generi[10] (22750 specie e 1530 generi secondo altre fonti[11]). Il genere Aster comprende oltre 200 specie diffuse in tutto il mondo ma in prevalenza si trovano nel vecchio mondo. Una decina di specie sono proprie del territorio italiano (va ricordato soprattutto Aster alpinus – Astro alpino). 
Da un punto di vista orticolo le specie di questo genere vengono divise in 4 gruppi esaminando il tipo di infiorescenza e la forma delle foglie. La specie Aster amellus appartiene al secondo gruppo in quanto i capolini sono sempre numerosi e le foglie basali sono del tipo cordiforme e picciolate. Le foglie di questa pianta, secondo la cosiddetta medicina popolare, hanno proprietà: antinfiammatoria (attenua uno stato infiammatorio); antitosse; depurativa (facilita lo smaltimento delle impurità); emostatica (blocca la fuoriuscita del sangue in caso di emorragia); espettorante (favorisce l’espulsione delle secrezioni bronchiali).

Altra piante molto tipica, col tipico fiore di colore azzurro, è la cicoria selvatica, citata addirittura nel papiro di Ebers già quattromila anni fa. Il nome, infatti, pare derivi dall’egiziano Kichorian. Nel medioevo veniva utilizzata anche nelle pratiche magiche perché si pensava che le radici potesse rendere invisibili. Da sempre viene utilizzata per le sue proprietà amare con azione tonica su fegato e cistifellea, per favorire la produzione e il deflusso della bile e quindi facilitare la digestione dei grassi. 

Di questa pianta si utilizzano le rosette di foglie basali raccolte in inverno, molto prima delle fioriture, per preparare insalate saporite, ma decisamente amare. I cespi di cicoria si consumano anche lessati e conditi con olio o ripassati in padella con altre verdure nelle misticanze di erbe cotte. Ottimi sono anche i germogli centrali dei fusti giovani prima della fioritura, utilizzati per frittate e semplicemente crudi o bolliti. In passato, specie nel periodo bellico, le radici tostate venivano utilizzate come succedaneo del caffè. 

E’ definita anche Cicureddhra, Cicorcia Cresta, Radicchio selvatico, Radice amara e cicoria matta. Con un chilo di cicoria selvatica (già sbollentata), unita a 300 g di pancetta di maiale, 50 g di pecorino grattugiato, olio extravergine di oliva, pepe, peperoncino e sale di può preparare la “Minestra di cicureddhre e maiale”.

In pratica, dopo aver pulito, lavato e sbollentato la verdura per 5 minuti in poca acqua bollente salata (che va conservata), la si sistema in una pentola dove sul fondo è stata messa la carne. Si condisce con pecorino, pepe, peperoncino e olio, aggiungendo poi un mestolo dell’acqua di cottura della verdura facendo cuocere a fuoco lento per un’ora fino a che la carne non sarà tenera. Se occorre si può aggiungere altra acqua calda durante la cottura.

 

Dall’azzurro della cicoria selvatica si passa al lilla della Malva selvatica. Si pensi che di pietanze a base di malva ne parlava, nella Magna Grecia, anche Pitagora e, nella Roma Imperiale, Cicerone riferiva in una sua Epistola di avere abusato di un pasticcio di Malva. Anche Orazio nelle Odi diceva di essersi nutrito di olive, cicoria e malva, così come Marziale decantava intingoli fatti a base di questo erbaggio. 

Nel Medioevo, molto apprezzati erano il pane e le focacce alla malva, talmente utilizzata da essere considerata, un tempo, la regina delle piante medicinali. E’ raccomandata in particolare per le sostanze mucillagginose che contiene e per i principi attivi come la malvina e la malvidina che sono utili calmanti nelle infiammazioni dell’apparato digerente ed urinario e, come cataplasma analgesico, nei dolori artritici e della gotta. 

La linfa della malva ha una azione benefica contro le punture di insetti; infatti spremendo il succo delle giovani foglie direttamente sulla parte offesa oppure masticandole e ponendo il bollo su di essa si ha un sollievo immediato. Una pratica, questa, che fa parte anche delle azioni degli apicoltori. 

In genere, di questa pianta, si usano le giovani foglie e i nuovi getti, ma sono ricercati anche i fiori, specie quando sono in boccio. Queste parti della pianta si consumano tanto cotte quanto crude. Cotte vanno appena lessate, in poca acqua (perché altrimenti diventano una massa mucillaginosa poco appetibile), si strizzano bene e si condiscono con olio, pepe e limone oppure si passano in padella come gli spinaci. 

Per il suo delicato sapore, la malva è assai apprezzata per la preparazione di risotti, con l’uso delle foglie più tenere ben triturate e mondate dalle costolature. Sono usate anche come ingredienti di minestre e minestroni a base di ortaggi vari ai quali danno un carattere “vellutato”, in virtù delle mucillaggini contenute. Anche i fiori della malva sono commestibili e si usano per decorare le pietanze, arricchire le insalate, i boccioli ed i frutti ancora teneri possono essere conservati sott’aceto come i capperi. 

Tra i piatti più celebri spicca il risotto alla malva che ha, come ingredienti, due manciate di foglie tenere di malva, 500 g di riso, 120 g di burro, 2 litri di brodo vegetale, 3 cucchiai di panna e 3 cucchiai di Gruyère grattugiato e una manciata di fiori di malva stessa. Per il procedimento è sufficiente sciogliere il birro in una casseruola e tostare il riso; versare il brodo dopo 5 minuti di cottura unendo le foglie di malva, scelte tra quelle più giovani e sane. Poco prima che il riso sia cotto, unire la panna ed il Gruyère e regolare di sale; spegnere il fuoco e unire una noce di birro e mantecare bene il risotto, lasciando poi riposare un minuto e decorando il tutto con i fiori di malva.

 


Tra i fiori più comuni, e caratteristici spicca poi il Ginestrino o Trifoglio giallo che, trattandosi di pianta foraggera dalla scarse esigenze, veniva coltivato già secoli fa ed è di particolare importanza perché utile nel controllo dell’erosione del suolo e come fissatore d’azoto nel terreno.


Celeberrimi e diffusissimi sono poi la rosa canina, che di questi tempi colora di rosso e di arancio le golene e le rive del fiume, e l’artemisia con il suo particolare profumo. La rosa canina, come noto, è una specie molto utilizzata in erboristeria e fitoterapia per le sue proprietà e i suoi benefici. I suoi frutti (falsi frutti carnosi) di un bel colore rosso intenso, lucidi, dal sapore dolce e aspro, vengono raccolti in autunno ed inverno, dopo le prime gelate. I frutti e le gemme di rosa canina hanno proprietà immunostimolanti, antinfiammatorie, antiossidanti e antinfiammatorie. Le bacche di rosa canina hanno inoltre azione blandamente diuretica e astringente. 

Le proprietà terapeutiche della rosa canina sono date dal fitocomplesso presente nella droga della pianta e costituito da vitamina C, acido malico, acido citrico, carotenoidi, pectine, tannini, flavonoidi e antociani. Le preparazioni erboristiche a base di rosa canina servono soprattutto come integratori di vitamina C.

La rosa canina viene normalmente consigliata come rimedio per aumentare le difese immunitarie, combattere gli stati infiammatori, alleviare i sintomi delle allergie e contrastare l’azione dei radicali liberi. Si utilizza normalmente sia come tisana che come tintura madre o estratto. 

Per quanto riguarda l’artemisia, questa è nota anche con i nomi di assenzio selvatico, amarella e canapaccio ed è una grande erba perenne che appartiene alla famiglia delle Asteraceae o Compositae. 

L’artemisia serve soprattutto come antispasmodico e amaro nei disturbi digestivi, tonico per il sistema nervoso ed emmenagogo, cioè come rimedio utile a stimolare il flusso mestruale. L’artemisia e le preparazioni erboristiche a base di questa pianta sono utili per favorire l’appetito e le funzioni digestive e per stimolare il flusso mestruale e il parto. 

Tra i benefici dell’artemisia troviamo anche l’azione ipoglicemizzante della radice, effetto apprezzabile dopo un uso prolungato del rimedio.

 Una considerazione va evidenziata (ma meriterebbero un importante servizio a parte) il giunco e il salice da vimini, piante da sempre diffuse nelle golene e nelle campagne intorno al Grande fiume. Piante che, nemmeno troppi decenni fa, hanno fornito lavoro (e sono quindi state fonte di vita) per la preparazione, ad esempio, di cesti, sedie e altri materiali a base di giunco e vimini. 

Nei territori di Polesine Zibello e Roccabianca, non a caso, esistevano diverse cesterie e aziende che lavoravano questi prodotti (e davano lavoro a non poche famiglie). Poi, il dilagare della plastica, con buona pace delle politiche sull’ambiente, e dei prodotti cinesi (di dubbia qualità), con buona pace del cosiddetto “made in Italy” (nonostante i tanti sproloqui, in questi senso, di alcuni incravattati dal deretano piatto e pelato, specie in campagna elettorale, o in occasione di inutili convegni che hanno il solo scopo di finire in lauti rinfreschi) hanno spazzato via anche queste attività. 

Infine una raccomandazione, tanto scontata quanto fondamentale: non raccogliere mai piante ed erbe che non si conoscono alla perfezione, ma godere sempre dei colori e dei profumi che le terre del Po, in ogni tempo e in ogni stagione, sanno donare.

 Eremita del Po, Paolo Panni

2 commenti:

  1. Ripensando in questi giorni a codesto scritto, oltre, naturalmente, ad avere un senso di gratitudine per l'Autore che con tanta passione cerca di condividere la vita attorno al Grande Fiume rendendola viva e importante come la sua storia, ho riveduto le mie conoscenze su alcune piante.
    Pur essendo nata in campagna, ma vissuta in un tempo in cui, almeno dalle mie parti, i fiori si portavano alla maestra e non si mangiavano, ho scoperto ad esempio solo qualche anno fa le radici commestibili del topinambur.
    E ricordo una frittatina con rondelline di quelle e uova di gallina ruspante veramente squisita! Prima ne ammiravo solo i fiori, per me bellissimi. Non sapevo, però, del contenuto di inulina che lo fa cibo prezioso per i diabetici e non solo. È una pianta che normalmente impiega molto tempo per ingrossare le radici (io ce l'ho nell'orto); ma come tutte le piante infestanti (che continuano a propagarsi nel terreno) se si tagliano spesso le fronde in superficie (2/3 volte l'anno) lavorano di più sotto terra.
    Non conoscevo la malva né come medicinale, né come erba commestibile, e nemmeno il nome. L'artemisia no l'ho ben individuata, ma visto che è utile a favorire l'appetito, non la cerco, perché quello non mi manca!
    Ancora grazie a Paolo, perché se andiamo avanti di questo passo, queste conoscenze potrebbero diventare molto utili...

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