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giovedì 18 luglio 2019

Una foto colma di Storia e di tante storie

La pluriclasse mista, III^ o IV^ della Scuola Elementare
di Parola,  frazione di Fidenza, allora Borgo San Donnino,
anni 1912/14

Foto di scolaresca. 

Mi è capitata fra le mani, non proprio per caso, questa foto d’epoca, che ritrae tra gli altri un importante personaggio fidentino; ritenendola piuttosto rara, chiedo al Dottor Ambrogio Ponzi il favore di pubblicarla sul suo Blog, che è particolarmente considerevole e molto seguito, dove ogni tanto ho il piacere e l’onore di apparire. 

Mi è occasione, in questo modo, di mandare una dedica di gratitudine a due stimate persone cui collego l’immagine: il Maestro Adriano Gainotti e la Professoressa Marisa Guidorzi.
La foto della numerosa pluriclasse mista, III^ o IV^ della Scuola Elementare di Parola, frazione di Fidenza, allora Borgo San Donnino, dovrebbe essere degli anni 1912/14, stando alla supposizione del maestro Gainotti che me l’ha donata in fotocopia, proveniente forse dall’originale della collezione Romanini (di Parola).  
A sinistra, biancovestita, appare la figura della maestra, Anna Stefanotti; la prima bimba in alto, sempre da sinistra, è la sorella della maestra, Argentina, mentre il bimbo vicino a lei, un po’imbronciato, è Secondo Gainotti, padre del nostro Adriano (nato nel 1904).  Sotto la prima fila in alto, sempre da sinistra, ecco che emerge il volto del personaggio promesso: è quello di Enrico Maffacini, divenuto poi sacerdote e illustre latinista (1902-1956)!  


In un articolo sul Blog del 27 marzo scorso Memoria e memorie, Marisa aveva riportato la traduzione latina di Don Maffacini della poesia L’aquilone di Giovanni Pascoli, attirando l’attenzione sul grande fidentino, conosciuto anche oltralpe. 
Studioso e cultore di lingue classiche, aveva tradotto in latino, tra le altre cose, il Pinocchio di Collodi per la Scuola, pubblicato nel 1950, che gli aveva dato fama. Ricordo vagamente la copertina ‘triste’, tutta marrone scuro con la scritta in stampatello bianco PINOCULUS, del libretto, tra i miei testi di Scuola Media, mai aperto in classe… ora imboscato chissà dove. 


Il maestro Gainotti che possiede edizioni diverse della traduzione latina, mi ha confermato che ce n’è una piuttosto bruttina, con copertina marrone! 
E mi ha raccontato che Maffacini, fin da ragazzo, aveva una grande passione per i burattini: amava Fasulen, Sandron e la Pulonia, i classici e tipici burattini di Ferrari, e, naturalmente, il burattino per eccellenza, Pinocchio. 


Ecco perché, dopo essere stato affascinato dallo studio del latino, ha sentito il desiderio di tradurne le avventure, immortalando così il personaggio: “un latino meraviglioso, nuovo, che in tanti punti ha dovuto inventare, coniando vocaboli che non esistevano nella lingua antica” (Gainotti). 
Si divertiva a inventare e scrivere piccole commediole che poi “rappresentava in piena contrada al centro di Parola” (la frazione di Parola, divisa tra Fontanellato, Noceto e Fidenza, ha un centro del borgo con case addossate e vicine, attorno a una via - nei pressi della Via Emilia - un luogo inconsueto in piena campagna). 
Il pubblico di ragazzi era allora ‘molto’ numeroso…, e il papà del maestro, Secondo, aiutava Enrico ad allestire la baracca, con due vecchie coperte, lenzuola, stracci e poco altro.
Mi ha riferito anche il detto che il Nostro, negli anni del Seminario, durante la ricreazione, per passatempo, andava a gara a conversare in latino con qualche seminarista che lo sfidava.
Dall’articolo di Marisa, ho saputo invece che, per meriti culturali, l’allora Presidente della Repubblica gli aveva concesso la medaglia d’oro, purtroppo alla memoria, a un anno dalla morte che lo colse giovane. 
Riposa nel cimitero cittadino sotto la prima arcata del Capitolo della Cattedrale. La foto del suo volto è nel primo ovato in alto a destra, vicino alla scritta “Can.co (Canonico) Enrico Maffacini 1 – 4 – 1956”. 


La prof.ssa Guidorzi, con tanta passione ma con una discrezione che la distingue, scrive, anche partendo dalla titolazione di una via, da un nome o da una poesia, come in questo caso, e così valorizza figure locali, spesso dimenticate, che hanno contribuito a rendere ricca la storia di Fidenza. La sua curiosità innata, il suo desiderio di conoscere e condividere, caratteristiche tipiche degli “insegnanti per sempre”, diventano opera preziosa per chi ama questa Città. 
Così come per il maestro Gainotti, cui va pure il mio omaggio, cultore impegnato del dialetto, della storia locale e delle tradizioni di una volta, che descrive e disegna nelle sue pubblicazioni (come faceva un tempo sulla lavagna, a scuola), conservandone la memoria che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduta. 
Generoso e sempre disponibile, mi aveva anche aiutato a sistemare gli accenti nelle frasi in dialetto fidentino sul volume dell’abate Pietro Zani (ma qualcuno, sottovoce, mi ha fatto notare, poi, che “lui è di Parola…!”). 
So che difficilmente leggerà queste righe e mi dispiace, poiché è fedele alla matita e alla penna, ma convinto refrattario al computer e al suo mondo.
Una piccola curiosità: come avranno calcolato lo stipendio della maestra Anna, che, come donna, percepiva meno dei colleghi uomini e se insegnava alle femmine, prendeva ancora meno? 

Ritornando alla foto - sulla quale, conoscendo la realtà di allora si potrebbe scrivere un libro - e guardando le espressioni dei volti, sicuramente possiamo dedurre che il fotografo non aveva detto “cheese” (cis) prima di scattare, come si fa oggi. 
Questa abitudine, infatti, è recente, e risale alla metà del Novecento: prima, sorridere alla macchina fotografica era vietato! 
Lo studio di una ricercatrice bulgara (C. Kotchemidova) ci illumina sul perché e il percome.
Dalla metà dell’Ottocento, quando nasce la fotografia, in Inghilterra, i fotografi chiedevano ai loro soggetti di mettersi in posa dicendo “prunes” (prugne), per serrare le labbra e avere così un’espressione più seria. L’ideale era immortalare le persone con un’espressione austera. Essere seri davanti all’obiettivo era considerato bello e accettabile. 
“Una fotografia – scriveva Mark Twain – è un documento importante, e non c’è niente di peggio che lasciare ai posteri uno sciocco, stupido sorriso catturato e fissato per sempre”. Anche il celebre scrittore e umorista statunitense aveva dunque le idee chiare riguardo l’espressione da tenere davanti alla macchina fotografica. 
Con l’andar degli anni, grazie allo sviluppo della tecnologia e ad apparecchiature più moderne con tempi di scatto notevolmente ridotti (Pocket e Brownie della Kodak), cambiò il modo di porsi davanti all’obiettivo.  
Perché oggi si dice “cheese” (formaggio in inglese) quando si scatta una foto? 
La parola fa sì che le labbra formino una specie di sorriso, dato che la pronuncia ci spinge a chiudere i denti e ad allargare leggermente la bocca. 
Pare che l’espressione, riportata dai media per la prima volta nel 1943, sia stata ‘opera’ dell’allora presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt. 
La frase “dite cheese” fu riportata a un cronista del T. B. S. Herald dall’ambasciatore americano J. E. Davies, il quale raccontò di averla sentita da un misterioso politico che si scoprì essere Roosevelt. Il presidente, confidò l’ambasciatore, aveva un trucco: dire una parolina, cheese, che grazie alla pronuncia gli consentiva di sfoggiare un bel sorriso e di venire bene in foto.
Quel che è certo è che fu uno dei primi politici ad affidarsi a consulenti d’immagine, proponendo in foto una ‘versione’ di sé sorridente, serena e ottimista (da Google).
Peccato che la parolina non fosse conosciuta dal fotografo della nostra numerosa scolaresca!                                               

Fidenza 18/07/19                                Mirella Capretti          

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