Dal sito ANPC Nazionale organo dell'Associazione Nazionale Partigiani Cristiani riprendo questo articolo che è l'editoriale pubblicato dal quotidiano Avvenire in data 23 novembre. Se ogni comunità non si interroga senza ipocrisia sulla sua storia episodi come questo sono dietro l'angolo, e, in qualche modo, è siamo complici di chi implicitamente ripete la frase "non l'avevamo ucciso abbastanza".
Rolando Rivi, seminarista 14 anni
Verità necessaria di Anna Foa
Sgomenta la notizia che una scuola della provincia di Reggio Emilia ha deciso di impedire la visione di una mostra itinerante dedicata a Rolando Rivi, giovanissimo seminarista, quattordici anni, ucciso da un gruppo di partigiani comunisti nell’aprile 1945 e fatto beato da papa Francesco nell’ottobre scorso.
Sgomenta perché la scuola è intitolata ad Anna Frank, assassinata poco più vecchia di lui dai nazisti nei loro campi di sterminio. E se c’è qualcosa che la memoria della Shoah ci insegna è a non seppellire le memorie sotto pretesti ideologici di nessun tipo. Anche se si tratta di memorie scomode. Scomode perché ad assassinare il ragazzo, che era tornato nel suo paese dal seminario a causa della guerra e continuava a studiare e a vestire l’abito del seminarista in quei giorni confusi e tragici che precedono la liberazione furono dei partigiani di una brigata comunista, poi condannati a una pena detentiva in parte amnistiata. Scomode, perché il ragazzo di nulla era colpevole se non di essere un seminarista, e la sua uccisione avvenne in nome di un odio della religione diffuso in quelle zone, un anticlericalismo (di cui partecipò appieno anche Benito Mussolini, ricordiamolo) che aveva, nei decenni passati, prodotto solo slogan e parole, ma che nel furore di una guerra terribile si mutò in un’arma di morte. Tanto più terribile è questa vicenda in quanto quel ragazzo era, sembra, legato non ai fascisti di Salò che avevano seminato morte e distruzione, ma ai partigiani cattolici che, insieme a quelli comunisti e a quelli di 'Giustizia e Libertà', anche se non senza tensioni, stavano combattendo contro nazisti e fascisti. La motivazione di questa censura è stata che la mostra avrebbe «gettato fango sulla Resistenza ». Io credo che invece proprio chi si richiama alla lotta della Resistenza, chi distingue nettamente, come me, nella tragedia di quegli anni, fra i partigiani e i repubblichini amici e servi dei nazisti, impegnati a deportare gli ebrei e a compiere stragi sui civili, ha tutto l’interesse a non rimuovere e censurare il passato, ma a chiarirlo e raccontarlo, farne memoria. Alla luce della storia, certo, con le prove documentarie e obbedendo al rigore dello storico. Tanti eventi sono stati obliati, censurati, nascosti in nome della rinascita dell’Italia, degli equilibri fra nazioni, della guerra fredda, delle ideologie, del comunismo. I processi memoriali hanno trovato in queste esigenze 'superiori' tanti ostacoli: dalle stragi naziste sepolte negli armadi della Repubblica per non urtare la suscettibilità della Germania rinata nell’Europa della guerra fredda, alle violenze del triangolo della morte, alle foibe istriane. Questi eventi devono tutti essere ricordati, e ancor più ricostruiti e narrati, e non perché i repubblichini e i partigiani fossero la stessa cosa, ma proprio perché non lo erano. Perché se avessero vinto i fascisti, tanto per fare un esempio, io come ebrea non sarei qui a scrivere queste righe. L’unico modo di difendere la memoria è quello di ricordare anche i fatti che preferiremmo negare, che non vorremmo che fossero mai avvenuti: la zona grigia o, peggio, una zona tutta nera di violenza e di assassini compiuti in nome della libertà. L’assassinio di Rivi è uno di questi. L’uccisione del beato Rivi, non la mostra a lui dedicata, è un episodio suscettibile di infangare la memoria della Resistenza. Ricordarlo è anche un modo per restituire la memoria, separando il grano dal loglio, gli assassini dai partigiani che lottavano per liberarci dai nazisti e dalla dittatura fascista. Non dobbiamo stancarci di cercare la verità, di ricostruire i fatti del passato e di serbarne memoria. Senza censure, senza remore ideologiche di nessun tipo. Perché solo la verità consente la memoria.
Avvenire, 23 novembre 2013
Ho letto che i sacerdoti, i cappellani militari ed i seminaristi uccisi, tra il '45 ed il '51, furono ben 515. Tra questi c'erano fieri sostenitori del nazifascismo, come don Calcagno; l'ultimo prete ucciso fu Don Bardotti, parroco di Cevoli, in provincia di Pisa, appunto nel '51. Di solito, il sistema adottato era quello di far uscire il sacerdote dalla canonica, con la scusa di assistere dei morenti. Questo raccontano certi cattivoni maldicenti, come Pansa, &Co; non so poi quale sia la versione dell'ANPI, che di solito è la Bocca della Verità.
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RispondiEliminaLa decisione della scuola reggiana, è deprecabile ed il suo dirigente scolastico o chi per lui, ha peccato di grave omissione nei confronti di giovani che hanno tutto il diritto di sapere anche le verità che stanno scomode a qualcuno. Ripeto, ancora una volta, che la storia della Resistenza italiana è sempre stata scritta da persone che hanno mentito anche a loro stesse; infatti inneggiando a una desiderata ed acclamata Democrazia, essi, in verità, volevano trasferire l'Italia da una dittatura ad un'altra. Ora sappiamo per certo che la Resistenza non era unita né moralmente, né politicamente e che, forse non era composta neppure da quel gran numero di combattenti che ci han fatto credere. Sappiamo (questo non solo da adesso) che gli odi personali, la sete di vendetta, il desiderio di supremazia, l'intolleranza verso la religione e verso chi vestiva l’abito talare, hanno guidato la mano omicida di tanti partigiani, fino al 1948. Ero piccolissima quando, ascoltando gli adulti, sono venuta a conoscenza di alcune storie successe, posso ben dirlo, il giorno prima. Poco più avanti ne ho potuto toccare una con mano, senza riuscire a credere fino in fondo che fosse vera. E come avrei potuto? Mi piaceva tanto la canzone del Partigiano! Mi piaceva tanto Bandiera Rossa e le cantavo a squarciagola percorrendo il tunnel del Vultón del Simiteri per esorcizzare la paura del buio. Ora è tempo che si sappia la vera verità, non quella opinabile e si faccia completa luce sul buio pesto che ci ha avvolto per sessant’anni e passa. Quel buio che, fino a vent’anni fa, mi faceva piangere solo nella ricorrenza dell’omicidio dei sette fratelli Cervi, perché non sapevo nulla dell’omicidio dei sette fratelli Govoni. Ora da madre, da donna, da italiana, da essere umano, li piango entrambi. Luce sulla strage di Porzûs, luce sulle Foibe e luce sui Partigiani dell’ultima ora, specie su quelli che si dichiarano tali quando all’epoca dei fatti avevano 7/8 anni.
Clary, ma basta pensare che, dopo 68 anni, ancora non si è trovato il coraggio civile e politico della verità sulla fine del Duce e della Petacci. E non la si conoscerá mai. Chi sapeva tacque e tacerà per sempre, minacciato di morte dai compagni di allora e di poi.
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