Il tabarro a
Fidenza, ieri e oggi.
Da due anni a questa parte, quando il freddo sembra penetrare fino alle ossa e la nebbia sfuma i contorni delle cose, per le vie di Fidenza s’incontra un signore con indosso il tabarro.
Questo capo d’abbigliamento,
che ha suscitato curiosità e commenti, secondo le riviste di moda, è tornato in
auge non solo in Italia: per gli americani, ad esempio, il tabarro è il top del
fascino italiano.
Che cos’è
Il tabarro è un grande mantello rotondo, in tessuto pesante, solitamente impermeabile, con bavero (colletto) e pellegrina (mantellina). Allacciato solo sotto il mento, si chiude buttando un’estremità sopra la spalla opposta, in modo da avvolgerlo intorno al corpo. Il modello classico è lungo fino al polpaccio, quello usato per andare a cavallo, poi in bicicletta, è più corto.
Il tabarro è
formato da una ruota perfetta, tagliata in coppia da sei metri di stoffa
compatta alta m. 1,50, che rimane a “taglio vivo”, con un’unica cucitura sulla
schiena. Diversi i tessuti: panno nobile, panno pastore, il velour (utilizzato
per le alte uniformi dei militari) e il tessuto di lana nobile. I baveri,
indeformabili, sono realizzati con tela di crine. In Emilia e in Romagna il
tabarro è detto “caparela”. In Veneto s’identifica col tabarro il vecchio
“ferraiolo” (ferariol in dialetto).
La storia
Il termine tabarro è di derivazione incerta: o dal latino “tabae”, o dal latino medioevale ”tabarrus”, o dal francese antico “tabart”. L’origine dell’indumento è molto antica e nel tempo variano le sue caratteristiche. Già i greci si riparavano dal freddo avvolgendosi in un tessuto rettangolare così come usciva dal telaio. I notabili e i re etruschi indossavano mantelli o cappe come la “lacerna” o la “tabenna”.
Presso i romani il mantello era più lungo ed era chiamato “toga” (da
tegere=coprire). La toga che era usata
dai nobili e dai “cives “, aveva vari significati secondo il colore, ad es. la
“candida” era indossata dagli aspiranti alle cariche pubbliche, per questo
detti “candidati”. Era agganciata davanti con un fermaglio d’oro. Nel periodo
feudale c’erano diversi tipi di mantelli, secondo i gradi nobiliari, ed erano
indossati dal cavaliere nel momento dell’investitura.
Nel 1300 il tabarro, con
maniche ampie, era portato da medici, magistrati, mercanti ed ecclesiastici
sotto il mantello. Nel 1500 è descritto sia come elegante giacca con maniche,
aperta sul davanti, portata dagli scudieri del Doge, sia come indumento di
stoffa scadente detta “griso”, con cappuccio e stretto in vita, portato dai
“galeotti sforzati”. Andato in disuso in città, fu adoperato soprattutto dai
pastori: era di mezzalana o lana sottoposta a follatura per renderla
impermeabile.
Nel 1600 a
Venezia lo troviamo indossato dai cittadini semplici, detti appunto “da
tabarro”. I nobili usavano la toga. Ai giovani patrizi però piaceva, perché
molto pratico per le avventure notturne. Il governo veneto, contrario alla moda,
infliggeva sanzioni.
Solo dal 1762 non fu più reato per i nobili girare col tabarro.
Ebbe così ancora diffusione e conquistò anche le dame.
Nei Musei veneziani se ne conservano esemplari
perfetti e lo ritroviamo in molti dipinti del tempo, di Canaletto, Longhi e
Guardi. Nella città lagunare era celebre il “tabarro da maschera”, nero e
ricco, lungo fino alla caviglia, sopra il quale s’indossava la “bautta”
(mantellina), pure nera e la “larva”, maschera bianca che copriva buona parte
del volto. Completava il travestimento il “tricorno”, cappello nero a tre
punte. Il tabarro era apprezzato dai nobili perché nascondeva i sontuosi
vestiti e i gioielli proibiti dalle leggi della Repubblica. Inoltre garantiva
l’anonimato, grazie alle stesse leggi. Così anche “preti e monache per forza”
usavano il tabarro da maschera per licenziosi incontri.
Sotto di esso potevano
nascondersi “la più grande nobiltà, la plebe più vile e i delatori più
insigni”. Vi era poi il “tabarro comune”.
I nobili si distinguevano dai
borghesi portandolo color scarlatto in contrasto con la parrucca bianca o
bionda. Gli altri colori erano il nero, il grigio, il blu, e il bianco
d’estate. L’allacciatura era una fibbia d’oro con due zampe di leone.
Nel primo
‘800 era ancora di moda per ripararsi dal freddo. I dandies francesi, nella
loro ostentata ricerca di raffinatezza, riscoperto il vecchio tabarro dei
pastori, lo riproposero in velluto foderato di raso bianco.
Nel meridione
d’Italia, il tabarro nero e lungo era riservato a persone di grande
considerazione. Il popolo usava quello grigio e marrone di mezza lana e
infeltrito; indossare quello nero era considerata una sfida.
Pure a
Venezia portare il tabarro lungo e a ruota completa era un punto d’arrivo.
Tra alterne
fortune sopra vivrà per tutto il secolo, pur contrastato da nuovi tipi di
soprabito.
Nel 1900
scompare dalle città, sostituito dal cappotto. Si usa ancora nelle campagne e
nei piccoli paesi, non solo dai contadini, nero o grigio, di panno pesante e
impermeabile, solo d’inverno.
Nel periodo
fascista, è proibito, soprattutto in città, perché considerato indumento tipico
degli anarchici. A Venezia c’era il detto: ”Oh quanti contrabbandi se sconde
coi tabari!”.
In campagna e in montagna,
spesso era l’unico capo di vestiario, che passava di padre in figlio, senza
problemi di taglia.
L’aveva
anche mio padre, grigio da una parte e a quadretti con diverse tonalità di
grigio e un filettino amaranto dall'altra, col colletto di pelo. Ricordo, nel
primo anno delle elementari, quando c’era brutto tempo, mio padre mi accompagnava
a scuola e mi tornava a prendere: mi sedeva sul tubo della sua bicicletta da
uomo, ed io rimanevo al buio, attaccata al manubrio, sotto il tabarro che
avvolgeva entrambi…
Quanta
nostalgia di quel tabarro, mentre scrivo: per anni, appeso a un chiodo in
cantina e poi buttato…
Qualche
anziano lo possiede ancora. Nell'ultimo dopoguerra è pian piano andato in
disuso.
Vi sono
Tabarrifici a Mirano (Venezia) e a Mogliano Veneto (Treviso).
L’antico
capo d’abbigliamento è stato celebrato in musica da Giacomo Puccini nell’opera
“Il tabarro” e cantato, negli anni ’30, in “Signorinella pallida”: “Porto il tabarro a ruota e fo’ il notaio…”.
In
letteratura lo troviamo in Dante, Boccaccio, Goldoni, Foscolo, Verga, Pirandello,
Deledda, Buzzati, Fò.
Anche Fellini
lo tenne in considerazione e il nostro Giovannino Guareschi, celebre scrittore della
Bassa, vestiva col tabarro e lo descriveva indosso ai personaggi nelle sue
opere.
Cesare
Zavattini aveva scritto una bella poesia in dialetto sul tabarro, tradotta in
italiano dice:
“Portano ancora il tabarro/ dalle mie
parti./ C’è un vecchio del Ricovero Buris-Lodigiani/ che vi s’involta dentro
fino agli occhi/ come volesse dire/ non voglio più vedere nessuno./ Sembrano
uccelli/ le genti in bicicletta. / Appena il piede/ tocca ancora la terra/
torna in mente/ quello che avevano voluto scordare”.
A conferma
dell’uso di questo indumento nelle nostre terre, in passato, vi è una rara immagine,
purtroppo sfuocata. È stata esposta per molti anni nella Sezione dedicata alla
Terramara di Castione Marchesi, nel Museo Archeologico Nazionale di Parma. La
facevo notare, in un grande pannello, quando accompagnavo i miei alunni di
prima media in visita guidata.
La storica foto, di cui non è stato possibile trovare
notizie d’archivio, riprende gli uomini della frazione fidentina, o dei
dintorni, quasi tutti col tabarro. Alcuni lo
indossano lungo, altri più corto, alcuni scuro, altri chiaro, al limitare degli
scavi, dove emergono i pali di fondazione inclinati.
Anche a
Castione come in tanti siti dell’Emilia, infatti, i cumuli, alti più di 3
metri, di terra nera e grassa, ricca di elementi fertilizzanti, formatisi con i
rifiuti organici degli insediamenti dell’età del bronzo, furono sfruttati nel
1800 per concimare i campi, scavando fino in profondità.
Giuseppe
Verdi stesso fece portare carri di marna nei suoi terreni.
I molti e
importanti reperti archeologici raccolti e studiati da Strobel e dal giovane
Pigorini fin dal 1862, proprio a Castione, destarono certamente molta curiosità
nella zona. Ogni occasione era buona per andare a vedere e il 4 marzo 1877, i
presenti sul posto, col loro tabarro, grazie al fotografo, sono passati alla
storia.
Solo uomini,
però, non è presente nemmeno una donna. Altri tempi.
Chissà se
anche a Castione c’era un detto sulla donna come nel Veneto: “Che (l)‘a piasa,
che (l)‘a tasa, che (l)‘a staga in casa” (Che piaccia, che taccia, che stia in
casa)!
Speriamo che
il ritorno del tabarro non porti anche il ritorno di quel modo di considerare
l’altra metà del cielo.
Fidenza 31/08/12
Mirella Capretti
Ho appena letto che a Mirano, tra Padova e Venezia, esiste ancora una ditta che confeziona tabarri, anche da donna, in stoffe calde e pregiate.
RispondiEliminaAnche nel bergamasco
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