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giovedì 3 gennaio 2019

Il tabarro a Fidenza, ieri e oggi.


Il tabarro a Fidenza, ieri e oggi.

Da due anni a questa parte, quando il freddo sembra penetrare fino alle ossa e la nebbia sfuma i contorni delle cose, per le vie di Fidenza s’incontra un signore con indosso il tabarro.
Questo capo d’abbigliamento, che ha suscitato curiosità e commenti, secondo le riviste di moda, è tornato in auge non solo in Italia: per gli americani, ad esempio, il tabarro è il top del fascino italiano.
Effettivamente aggiunge un qualcosa di misterioso a chi lo porta.
Che cos’è

Il tabarro è un grande mantello rotondo, in tessuto pesante, solitamente impermeabile, con bavero (colletto) e pellegrina (mantellina). Allacciato solo sotto il mento, si chiude buttando un’estremità sopra la spalla opposta, in modo da avvolgerlo intorno al corpo. Il modello classico è lungo fino al polpaccio, quello usato per andare a cavallo, poi in bicicletta, è più corto.
Il tabarro è formato da una ruota perfetta, tagliata in coppia da sei metri di stoffa compatta alta m. 1,50, che rimane a “taglio vivo”, con un’unica cucitura sulla schiena. Diversi i tessuti: panno nobile, panno pastore, il velour (utilizzato per le alte uniformi dei militari) e il tessuto di lana nobile. I baveri, indeformabili, sono realizzati con tela di crine. In Emilia e in Romagna il tabarro è detto “caparela”. In Veneto s’identifica col tabarro il vecchio “ferraiolo” (ferariol in dialetto).


La storia

Il termine tabarro è di derivazione incerta: o dal latino “tabae”, o dal latino medioevale ”tabarrus”, o dal francese antico “tabart”. L’origine dell’indumento è molto antica e nel tempo variano le sue caratteristiche. Già i greci si riparavano dal freddo avvolgendosi in un tessuto rettangolare così come usciva dal telaio. I notabili e i re etruschi indossavano mantelli o cappe come la “lacerna” o la “tabenna”. 
Presso i romani il mantello era più lungo ed era chiamato “toga” (da tegere=coprire).  La toga che era usata dai nobili e dai “cives “, aveva vari significati secondo il colore, ad es. la “candida” era indossata dagli aspiranti alle cariche pubbliche, per questo detti “candidati”. Era agganciata davanti con un fermaglio d’oro. Nel periodo feudale c’erano diversi tipi di mantelli, secondo i gradi nobiliari, ed erano indossati dal cavaliere nel momento dell’investitura. 
Nel 1300 il tabarro, con maniche ampie, era portato da medici, magistrati, mercanti ed ecclesiastici sotto il mantello. Nel 1500 è descritto sia come elegante giacca con maniche, aperta sul davanti, portata dagli scudieri del Doge, sia come indumento di stoffa scadente detta “griso”, con cappuccio e stretto in vita, portato dai “galeotti sforzati”. Andato in disuso in città, fu adoperato soprattutto dai pastori: era di mezzalana o lana sottoposta a follatura per renderla impermeabile.
Nel 1600 a Venezia lo troviamo indossato dai cittadini semplici, detti appunto “da tabarro”. I nobili usavano la toga. Ai giovani patrizi però piaceva, perché molto pratico per le avventure notturne. Il governo veneto, contrario alla moda, infliggeva sanzioni. 
Solo dal 1762 non fu più reato per i nobili girare col tabarro. Ebbe così ancora diffusione e conquistò anche le dame.  
Nei Musei veneziani se ne conservano esemplari perfetti e lo ritroviamo in molti dipinti del tempo, di Canaletto, Longhi e Guardi. Nella città lagunare era celebre il “tabarro da maschera”, nero e ricco, lungo fino alla caviglia, sopra il quale s’indossava la “bautta” (mantellina), pure nera e la “larva”, maschera bianca che copriva buona parte del volto. Completava il travestimento il “tricorno”, cappello nero a tre punte. Il tabarro era apprezzato dai nobili perché nascondeva i sontuosi vestiti e i gioielli proibiti dalle leggi della Repubblica. Inoltre garantiva l’anonimato, grazie alle stesse leggi. Così anche “preti e monache per forza” usavano il tabarro da maschera per licenziosi incontri. 
Sotto di esso potevano nascondersi “la più grande nobiltà, la plebe più vile e i delatori più insigni”. Vi era poi il “tabarro comune”. 
I nobili si distinguevano dai borghesi portandolo color scarlatto in contrasto con la parrucca bianca o bionda. Gli altri colori erano il nero, il grigio, il blu, e il bianco d’estate. L’allacciatura era una fibbia d’oro con due zampe di leone. 
Nel primo ‘800 era ancora di moda per ripararsi dal freddo. I dandies francesi, nella loro ostentata ricerca di raffinatezza, riscoperto il vecchio tabarro dei pastori, lo riproposero in velluto foderato di raso bianco. 
Nel meridione d’Italia, il tabarro nero e lungo era riservato a persone di grande considerazione. Il popolo usava quello grigio e marrone di mezza lana e infeltrito; indossare quello nero era considerata una sfida.
Pure a Venezia portare il tabarro lungo e a ruota completa era un punto d’arrivo.
Tra alterne fortune sopra vivrà per tutto il secolo, pur contrastato da nuovi tipi di soprabito.
Nel 1900 scompare dalle città, sostituito dal cappotto. Si usa ancora nelle campagne e nei piccoli paesi, non solo dai contadini, nero o grigio, di panno pesante e impermeabile, solo d’inverno.
Nel periodo fascista, è proibito, soprattutto in città, perché considerato indumento tipico degli anarchici. A Venezia c’era il detto: ”Oh quanti contrabbandi se sconde coi tabari!”.  
In campagna e in montagna, spesso era l’unico capo di vestiario, che passava di padre in figlio, senza problemi di taglia.
L’aveva anche mio padre, grigio da una parte e a quadretti con diverse tonalità di grigio e un filettino amaranto dall'altra, col colletto di pelo. Ricordo, nel primo anno delle elementari, quando c’era brutto tempo, mio padre mi accompagnava a scuola e mi tornava a prendere: mi sedeva sul tubo della sua bicicletta da uomo, ed io rimanevo al buio, attaccata al manubrio, sotto il tabarro che avvolgeva entrambi…
Quanta nostalgia di quel tabarro, mentre scrivo: per anni, appeso a un chiodo in cantina e poi buttato…
Qualche anziano lo possiede ancora. Nell'ultimo dopoguerra è pian piano andato in disuso.
Vi sono Tabarrifici a Mirano (Venezia) e a Mogliano Veneto (Treviso).
L’antico capo d’abbigliamento è stato celebrato in musica da Giacomo Puccini nell’opera “Il tabarro” e cantato, negli anni ’30, in “Signorinella pallida”: “Porto il tabarro a ruota e fo’ il notaio…”.
In letteratura lo troviamo in Dante, Boccaccio, Goldoni, Foscolo, Verga, Pirandello, Deledda, Buzzati, Fò.
Anche Fellini lo tenne in considerazione e il nostro Giovannino Guareschi, celebre scrittore della Bassa, vestiva col tabarro e lo descriveva indosso ai personaggi nelle sue opere.
Cesare Zavattini aveva scritto una bella poesia in dialetto sul tabarro, tradotta in italiano dice:
“Portano ancora il tabarro/ dalle mie parti./ C’è un vecchio del Ricovero Buris-Lodigiani/ che vi s’involta dentro fino agli occhi/ come volesse dire/ non voglio più vedere nessuno./ Sembrano uccelli/ le genti in bicicletta. / Appena il piede/ tocca ancora la terra/ torna in mente/ quello che avevano voluto scordare”.
Esiste anche un monumento al tabarro, in marmo, a Santa Vittoria di Gualtieri (RE).



A conferma dell’uso di questo indumento nelle nostre terre, in passato, vi è una rara immagine, purtroppo sfuocata. È stata esposta per molti anni nella Sezione dedicata alla Terramara di Castione Marchesi, nel Museo Archeologico Nazionale di Parma. La facevo notare, in un grande pannello, quando accompagnavo i miei alunni di prima media in visita guidata. 
La storica foto, di cui non è stato possibile trovare notizie d’archivio, riprende gli uomini della frazione fidentina, o dei dintorni, quasi tutti col tabarro. Alcuni lo indossano lungo, altri più corto, alcuni scuro, altri chiaro, al limitare degli scavi, dove emergono i pali di fondazione inclinati.
Anche a Castione come in tanti siti dell’Emilia, infatti, i cumuli, alti più di 3 metri, di terra nera e grassa, ricca di elementi fertilizzanti, formatisi con i rifiuti organici degli insediamenti dell’età del bronzo, furono sfruttati nel 1800 per concimare i campi, scavando fino in profondità.
Giuseppe Verdi stesso fece portare carri di marna nei suoi terreni.
I molti e importanti reperti archeologici raccolti e studiati da Strobel e dal giovane Pigorini fin dal 1862, proprio a Castione, destarono certamente molta curiosità nella zona. Ogni occasione era buona per andare a vedere e il 4 marzo 1877, i presenti sul posto, col loro tabarro, grazie al fotografo, sono passati alla storia.
Solo uomini, però, non è presente nemmeno una donna. Altri tempi.
Chissà se anche a Castione c’era un detto sulla donna come nel Veneto: “Che (l)‘a piasa, che (l)‘a tasa, che (l)‘a staga in casa” (Che piaccia, che taccia, che stia in casa)!
Speriamo che il ritorno del tabarro non porti anche il ritorno di quel modo di considerare l’altra metà del cielo.
Fidenza 31/08/12                                                                                         Mirella Capretti

2 commenti:

  1. Ho appena letto che a Mirano, tra Padova e Venezia, esiste ancora una ditta che confeziona tabarri, anche da donna, in stoffe calde e pregiate.

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