Iconografia del Sacro Cuore
Non solo statue e immagini devozionali ma anche importanti quadri d’autore testimoniano la diffusione del culto al Sacro Cuore nella città e diocesi di san Donnino. Si tratta di una devozione antica, che risale al lontano medioevo, ma le raffigurazioni del Sacro Cuore Gesù hanno conosciuto una straordinaria fioritura, soprattutto a partire dal Settecento, dopo la pubblicazione (1682) dei diari di Margherita Alacoque, che contengono le rivelazioni concesse alla santa durante l’adorazione al Santissimo Sacramento, nella cappella del convento delle Visitandine di Paray le Monial.
Le immagini di Cristo che mostra un cuore di carne, traducono, sotto forma simbolica (ma anche realistica se si considera la perfetta ricostruzione anatomica dell’organo vitale), l’essenza di uno stupefacente messaggio di amore: l’amore palpitante di Dio per ogni creatura, alla quale chiede incessantemente di accostarsi fiduciosa alla fonte della sua inesauribile misericordia, appunto il cuore che in tutte le tradizioni religiose rappresenta il centro fisico e spirituale dell’essere. Negli scritti di suor Margherita, raccolti e ordinati dal suo confessore, il gesuita san Claudio La Colombière, tale offerta d’amore si collega esplicitamente al segno tangibile del pane e del vino, che sull’altare diventano il corpo e il sangue del Signore, donato quale nutrimento per le anime.
Nel campo dell’arte locale, un fedele interprete di questa spiritualità che attinge alle “imperscrutabili ricchezze”del Cuore di Gesù, è il pittore Carlo Angelo Dalverme (1748-1826), che ha affrontato più volte il non facile soggetto. Tra queste opere, va senz’altro segnalato un quadretto eseguito nel 1819 su commissione del parroco di Cabriolo, e ora presso la chiesa di Tabiano. L’iconografia è quella tradizionale e l’immagine, particolarmente accurata e intensa, sembra voler riproporre le parole iniziali pronunciate da Gesù stesso durante la prima apparizione: “Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini …”.
Di maggiore interesse sul piano documentario, in quanto si riallaccia alle prime manifestazioni fidentine del culto, è invece una seconda più antica tela recentemente attribuita al Dalverme ( ma non si tratta, come sostiene A.Leandri del piccolo ovale dipinto nel 1789 per il predicatore Severino Ferloni) di cui è accertata la provenienza dalla cappella dedicata al Sacro Cuore, fatta costruire dal vescovo Alessandro Garimberti (1776-1813), sull’arcone del portale sinistro del Duomo. Il vano era collegato al palazzo vescovile da un corridoio, che intersecava orizzontalmente la torre delle cicogne. Dalla finestra di questa cappella, protetto da una grata, il vescovo poteva affacciarsi in ogni ora del giorno e della notte per adorare il Santissimo Sacramento, presente nel tabernacolo dell’altare in fondo alla navata. Dell’antico presidio eucaristico di monsignor Garimberti, oltre all’opera del Dalverme, restano oggi solo alcune tracce di decorazioni all’interno della torre, ma il valore della sua iniziativa è riconosciuto, già nel 1799, da un atto ufficiale di Papa Pio VI.
Come si può vedere, l’artista fidentino si è ispirato per entrambi i dipinti ai modelli tradizionali, che hanno come riferimento il celeberrimo Sacro Cuore di Pompeo Batoni (1760), conservato presso la chiesa romana del Gesù e riprodotto in milioni di esemplari, attraverso immagini oleografiche e santini.
Si discosta invece da questi schemi pietistici, il Sacro Cuore esistente presso il Museo del Duomo. La piccola pala, un vero e proprio capolavoro, forse meglio definibile come Sacro Cuore Eucaristico, apparteneva alla sala capitolare della Cattedrale, ma non si hanno notizie attendibili sulla sua collocazione originaria
Il recente restauro, eseguito da Francesca Ghizzoni, ne ha esaltato l’altissima qualità, che rivela il linguaggio colto e raffinato di uno dei principali esponenti del Settecento emiliano. L’attribuzione, avanzata a suo tempo da Eugenio Riccomini e confermata dalla critica più recente, ci conduce infatti direttamente all’atelier bolognese di Gaetano Gandolfi (1734-1802), che col fratello Ubaldo e il figlio Mauro costituisce una splendida triade di pittori, che onora non solo la città delle due torri ma tutta l’arte italiana. Ammiratissimi, in particolare nei paesi di cultura anglosassone, i Gandolfi sono stati ampiamente studiati, mentre le loro opere, esposte nei principali musei e collezioni del mondo, risultano in gran parte censite.
Per stile e soggetto, il prezioso dipinto è accostabile alla pala d’altare, realizzata da Gaetano nel 1801 per la parrocchiale di CastelGuelfo di Bologna; ma come sostiene Gianpaolo Gregori nel catalogo del Museo, la tela fidentina potrebbe essere anteriore di qualche anno, senza però escludere, a mio avviso, anche il concorso del figlio Mauro, della cui collaborazione Gaetano spesso si avvaleva per far fronte alle tante richieste, essendo letteralmente subissato di incarichi.
Ma al di là dei complessi problemi attributivi, l’elemento di maggiore interesse è dato dall’iconografia molto suggestiva. Decisamente insolita è infatti la rappresentazione di Gesù che, mentre indica con la mano destra il cuore lacerato, con la sinistra eleva il calice, su cui splende l’ostia consacrata: è la stessa attitudine che assume il sacerdote nel momento culminante della celebrazione della Santa Messa.
Rinunciando alle collaudate formule devozionali, il pittore bolognese ha dunque inteso ribadire il legame strettissimo che unisce la devozione al Sacro Cuore al mistero eucaristico, mostrando in questo modo di saper cogliere la vera essenza di un messaggio incentrato essenzialmente sulla persona di Cristo e sulla sua presenza sacramentale e non su un astratto o sdolcinato concetto di amore. La figura del Salvatore, affiancata da due luminosi cherubini ( uno guarda adorante Cristo, l’altro l’ostia), sembra scaturire dallo splendido contrasto tra il rosso acceso della tunica e il blu del manto, colori, di impronta veneziana, che richiamano significativamente la sua natura umana e divina.
Il volto di Cristo si caratterizza per una composta bellezza dai tratti classicheggianti. I lineamenti armoniosi sono inoltre valorizzati da una fluente chioma, con i capelli biondi e inanellati, che cadono sulle spalle, mentre lo sguardo è intensamente rivolto al calice ( essenziale nella forma e nella decorazione neoclassica a baccelli) e all’ostia, che reca impresso un motivo a filigrana: un piccolo particolare, quest’ultimo, che rivela uno scrupolo e una finezza quasi da miniaturista.
Allo stesso modo, nel perfetto modulare dei gesti, la mano destra di Gesù tende a indirizzare l’occhio dell’osservatore verso il cuore, descritto nella sua verità anatomica, segnato dallo squarcio della lancia, avvolto e sormontato dalla corona di spine e dalla croce: un cuore ardente, dal quale, come ha visto la mistica suor Margherita, si dipartono le fiamme in forma di raggiera.
L’associazione tra il Cuore di Gesù e il calice eucaristico, suggerita dal Gandolfi, diventa più convincente, se si considera, come si è detto, che le visioni avvengono sempre innanzi al Santissimo Sacramento, di venerdì, e hanno inizio il 27 dicembre 1673 festa di san Giovanni Evangelista. In quella circostanza Gesù invita Margherita a prendere il posto occupato durante l’Ultima Cena dall’apostolo prediletto che ebbe il privilegio di posare fisicamente il capo sul petto e quindi sul cuore del Signore, nel momento stesso in cui venne istituita l’Eucarestia.
Guglielmo Ponzi (Dal settimanale diocesano il Risveglio)
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