domenica 25 agosto 2013

"I have a dream": i cinquant'anni di un sogno



"I have a dream"
nel ricordo di Franco Bifani

Ho riascoltato, oggi, 25 agosto, il discorso di Martin  Luther King; quando lo udii, per la prima volta, il 28 agosto del 1963, avevo appena terminato l'ultimo anno di Liceo Classico. 
Le parole di quell'uomo straordinario, unico, più che raro, mi avevano lasciato, quale rampollo di famiglia borghese e cattolica, disinformato dei fatti, sbalordito ed attonito, per la loro veemenza gentile, quella loro forza d'urto, trascinante e decisa, ma garbata, scevra da qualsiasi invito, anche subliminale, alla violenza ed alla vendetta. 
King mi sembrava ispirato da Dio, quel Dio dell'Antico Testamento, giusto, ma tremendo, di quella Bibbia che aveva tenuto alta la luce della fede nei poveri schiavi neri, in America, per secoli di infamie da parte dei cittadini di una nazione, che aveva tradito le proposizioni roboanti, ma retoriche, della sua Dichiarazione di Indipendenza e della sua Costituzione. 
Fu assassinato che stavo terminando la mia tesi per laurearmi in Lettere Moderne. Per anni, sono andato in cerca di quel discorso, reso mistico e solenne da una dolente sacralità, dalle immagini di chiara ispirazione biblica, che lo rendevano parola di un moderno profeta di pace ed amore, le cui espressioni scendevano da quelle labbra come rivoli ambrati di miele e di lava ardente. Ed ai miei alunni raccontavo, durante le lezioni di Storia e di Italiano, le fasi della sua vita splendida, dal caso di Rosa Parks, poi ad Albany, Birmingham, alla Marcia su Washington e su Montgomery, dopo il Bloody Sunday. 
Quando annunciò al mondo questo suo sogno, mai realizzatosi fino in fondo, ero completamente al di fuori, anche per ragioni d'età, dalle vicende del razzismo americano, contro i neri e i nativi americani. Eravamo imbottiti, io ed i miei coetanei borghesi, dei films, insulsi ed infami, degli eroici cobbòi contro gli indiani, assassini ululanti, e di quelli in cui i neri parlavano sempre come deficienti, con il raffreddore cronico, usando i verbi all'infinito. E, di solito, impersonavano elementi della servitù, sciocchi, allocchi e rimbecilliti, o cuoche dalla stazza immane, con il fazzolettone annodato sul capo. 
Bisogna riascoltare “I have a dream”, perlomeno in quella versione su You Tube, che riproduce la parte centrale del discorso, con i sottotitoli in italiano, dopo aver letto e riflettuto sul testo intero di esso. 
Dinnanzi a 250mila persone, egli sognava che bianchi e neri potessero sedersi assieme, i figli dei padroni di un tempo e quelli degli antichi schiavi, al tavolo della fraternità e della giustizia. 
Egli voleva vedere i bimbi bianchi e quelli neri tenersi per mano, come fratelli e sorelle; egli ancora credeva in una Terra Promessa, quella in cui avevano vissuto,lavorato e sofferto i suoi antenati. Voleva che gli uomini non fossero giudicati per il colore della pelle, ma per l'umanità che avevano dentro di loro. 
Io ho pianto, lo confesso, come uno scemo, a 68 anni suonati, impiastrando la tastiera del PC di lacrime a pioggia, mentre lo riascoltavo, per l'ennesima volta, e mia moglie mi guardava, perplessa. Non me ne vergogno; meglio versare un poco di sale, diluito con acqua, dagli occhi, per il sogno di M. L. King, che per aver perso l'occasione di comperare, con uno sconto favoloso, l'ultimo modello del nuovo Ipad 3 o del Samsung Galaxy, per far morire di invidia gli amici e farsi bello allo sguardo melenso di qualche sciacquetta.

Franco Bifani

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