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lunedì 30 maggio 2022

"Ricordo di Sgavetta" di Mirella Capretti

Scritto per un ricordo di Sgavetta ad un anno dalla morte.



È ritornato con la calda primavera – ora già finito - il Giro d’Italia, 

e il pensiero corre... 

a chi amava questa competizione e ci ha lasciati, proprio un anno fa: il pittore e scultore Rino Sgavetta, che del ciclismo ha fatto la sigla, il tema ricorrente della sua espressione artistica.

“Partenza del Giro d’Italia 2022 da Budapest, le prime tre tappe ungheresi, un giorno di riposo per trasferta, e ripartenza dalla Sicilia”. 

Mi sembra di vedere Rino, lui, uomo concreto vecchio stampo, scuotere la testa: 

Era proprio necessario? Non era una grande occasione, anche con queste tre tappe, far conoscere di più, viste le riprese con elicotteri e droni, il nostro Paese, il più bello del mondo? Mah... e continuare a fare schizzi velocissimi su schizzi, come soleva fare vedendo le riprese in tv, ora... da posizione privilegiata.

E davanti agli occhi mi passano tanti suoi ciclisti, ma veramente tanti, e so per certo di non averli visti tutti... quelli in piccoli foglietti acquerellati, freschi, delicati; quelli delle grandi tele, con i suoi colori a spatola; quelli, leggeri come il vento, risolti a collage, con stoffe fini e coloratissime che andava a comperare al mercato, o con ritagli di giornale; quelli di ferro, piuttosto impegnativi, di dimensioni e colori diversi, dov’era riuscito a bloccare in modo magico la corsa.

Mi fa felice compagnia un suo acquerello con una “Volata” d’arrivo, entro cornice rossa: ogni volta che lo guardo mi si accende l’audio delle festose voci del Giro...

Nella sua foto ricordo aveva fatto scrivere “Ricordatemi nella forza dei colori, nella dolcezza delle forme, nella magia delle sensazioni”. 

Non mi è difficile ricordarlo con queste cose, ma la sua mancanza definitiva mi porta a ricordare di più le attenzioni affettive che ha rivolto verso di me, come un amico, come un padre: ho perso una persona che mi voleva bene, che mi ha lasciato un vuoto. Un vuoto in cui ci sono tutti i rimandi, sofferti, che ho lasciato correre, per occasioni di incontro. 

Lo ritrovo ora, guardando il vecchio candeliere di legno che mi aggiustò, perché non stava in piedi, con l’aiuto di Gianni, suo figlio.

Lo ritrovo nella croce scolpita nel sasso. “Questa l’ho fatta per lei”, mi disse un giorno che passai da casa sua. Conoscendo la mia passione per i sassi, quando ne trovò uno quadrato scuro, con la venatura bianca a croce al centro, pensò bene di ritagliarne la forma. Credo si difficilissimo scolpire un sasso. Rimasi stupita e un po’ perplessa, e gli chiesi se aveva tenuto i pezzi tolti: “Li ho lasciati sul pilastro del cancello del garage”, rispose. Andai a vedere: c’erano; li raccolsi e li conservo ancora.

Lo ritrovo nel disegno di un Cristo che aveva ricevuto come dono per una esposizione a Parma e tenuto appeso per anni in camera da letto; me lo regalò: ora è nella mia. 

Lo ritrovo pure in un pezzo di vecchia radice schiacciata, raccolta nel Po. Si, nel Po. 

Rino è l’unica persona che nella mia vita è riuscita ad accompagnarmi a vedere il Po in un periodo di magra. Io sono nata vicino al Grande Fiume, amato e temuto, e, ricordo, al mio paese, quando ero piccola, dopo la Messa della domenica, quasi una processione di gente che si portava sull’argine a vedere il Po, prima dei tornare a casa...

Allontanatami da quelle terre, col passare del tempo, i sempre più frequenti periodi di siccità, mi hanno fatto desiderare per anni di andare a vedere il fiume in secca, a cercare non so cosa... Per ben due volte avevo trovato care persone, fidate (nel senso che conoscevano le insidie del luogo), che mi avrebbero accompagnato, nel periodo estivo. Purtroppo pochi giorni prima del mio atteso ritorno da quelle parti, per ben due volte, quelle acque basse ma estremamente pericolose avevano inghiottito una vita. 

Discorso finito. 

Ormai non ci pensavo più, quando un giorno di un giugno siccitoso, appena tornata da Scuola, Rino mi chiamò al telefono per propormi di andare “a fare un giro a Po”. Fortunatamente non ci pensai troppo, ponendomi i soliti problemi... e accettai, felicissima! Mi venne a prendere a casa, e lungo il tragitto per le stradine della Bassa che io non conoscevo (la mia Bassa è molto più in basso, e dall’altra parte, ma non è chiamata così, perché è tutta piatta la pianura rodigina), mi raccontava che diverse volte si era portato in quei luoghi a dipingere col suo cavalletto. 

Ricordo con piacere il nostro gironzolare sulla sabbia scoperta, lasciata libera dall’acqua, quel pomeriggio. C’era molta gente sulla spiaggia, la cosa mi aveva sorpreso. 

Quando mi chinai a raccogliere un pezzo di legno sottile, tutto storto, con tante impronte rotonde, fu Rino a dirmi che era una radice schiacciata dai sassi, facendomi capire quanta perseveranza, e che esempio di vita potevamo trovare anche nel vissuto di una pianta...

Raccolsi anche una specie di noce rivestita di lamelle. 

Ponemmo attenzione poi ad alcuni vecchi mattoni rovinati e ormai porosi che affioravano dalla sabbia, raccogliendone due o tre pezzi che Rino portò a casa. 

Tempo dopo ebbi la sorpresa di vedere quei cocci, rimasugli di una storia persa in fondo al fiume che aveva spostato il suo alveo, entrare di nuovo nella storia per sempre nelle tele di juta di Rino, con quei suoi tipici caldi colori.  

Tele, come altre, che mi fanno ripensare a quell’amore profondo, non del tutto capito, delle piccole cose, che ho apprezzato tanto in lui. 

Come il “Cesto con zucca”, un dipinto che portavo come esempio ai miei alunni, quando ho avuto occasione di parlare di lui, negli anni della Scuola. Il cesto che Rino aveva intrecciato a mano, che si era rotto e che aveva aggiustato, come si faceva allora. Per poi ritrarlo insieme a una zucca, la regina dell’inverno dei contadini, un dono della terra di cui si buttava via niente.

Domenica scorsa, andando verso Fiorenzuola, dalla Via Emilia ho visto due campi di grano con papaveri, ormai una rarità. E il pensiero è andato subito a quel suo quadro che si trova all’ingresso dell’Ospedale di Vaio, insieme ad altri che ha generosamente donato, dove fresche e sicure spatolate di colore rosso sul grano ancora verde hanno fissato una visione di diversi anni fa, quando tutto ciò era normale. 

Sono di una semplicità estrema, ma intensa, le sue “vedute” che lui chiamava semplicemente “paesaggi”, tutte interpretate dal vero, per fermare la sua impressione di un momento ispirato, in un luogo in cui si sentiva bene: un’ora particolare del giorno, la neve, la tipica nebbia, lo scorcio di un fossato, il digradare di un monte, una casa abbandonata, una frana, i colori forti, caratteristici delle varie stagioni, in inquadrature riprese anche più volte.

Tralasciando tutti gli altri suoi temi con cui si è espresso negli anni, continuando a sperimentare materiali diversi con entusiasmo (fiori, frutti, animali, figure, barche, composizioni astratte), posso dire che in esse vedute ha dato risalto ad una natura incontaminata, pulita, serena, calma, lontana dai rumori delle macchine prodotti dall’uomo, senza figure, ricca di silenzi, o, forse, di lievi note musicali date dal fruscio del vento, dallo scorrere dell’acqua, dal canto degli uccelli, che solo chi conosce la terra, ha vissuto in essa lavorando con fatica, può capire e sentire davanti a una sua opera.

Da quando ho conosciuto Rino e ho cominciato ad apprezzare la sua arte, ho sempre pensato e gli avevo pure confidato che i suoi dipinti, quasi sculture, dato lo spessore dell’impasto, sarebbero valorizzati negli ampi spazi di un castello, magari con i muri a vista. La cosa lo intrigava piacevolmente, e un giorno mi donò una vecchia tela con il castello di Felino, per lasciarmi... “fantasticare”. 

Non nascondo certo di aver desiderato molti dei suoi quadri appesi alle pareti di casa mia, o anche accatastati in un angolo, per riprenderli in mano ogni tanto; e forse se avessi tergiversato di meno, fossi andata a trovarlo di più, e non ci fosse stato tanto vento contrario, sarei riuscita ad acquistarne qualcuno, anche se lui è sempre stato restio a vendere, perché amava molto quello che faceva.

Se ne è andato comunque col desiderio di fare una donazione al Comune di Fidenza, come aveva fatto il suo amico pittore Oreste Emanuelli.

Forse se ci fosse stata ancora la possente rocca pallavicina...

Rino mi stimava ed era contento quando scrivevo su di lui e sulle sue mostre, senza pretese. Io l’ho sempre fatto con piacere, per dargli voce, trovando mai concorrenza alcuna... Cosa che lui sottolineava. 

Non chiedeva, ma so che aspettava un mio riscontro. Solo una volta, mi propose, e per favore, di contribuire alla stesura di un catalogo delle sue opere insieme con lo storico dell’arte Marzio dall’Acqua. Uscì il volume “Rino Sgavetta / Il canto puro delle forme”, quasi un’impresa. 

Per me è stato un grande onore partecipare, come potevo, ma, soprattutto senza desiderare nulla in cambio. 

Invece lui un giorno mi telefonò invitandomi ad andare a casa sua con la macchina. Lo trovai davanti a una sua per me bellissima scultura: “L’ultimo volo del gabbiano” (legno di robinia e marmo verde di Verona). 

Mi disse “Questa è sua!”. 

Grande fu la mia emozione. Ero felicissima e senza parole, ma gli feci capire che ero cosciente di non meritare tanto. Lui mi convinse che, anche se la stava togliendo con dolore dal suo cuore, me l’affidava con tanto piacere e gratitudine. Che privilegio!

Un’opera che avevo visto nascere, come altre, “che avevo sentito subito mia” quella volta che, quasi del tutto intagliata, era appoggiata, in garage, sul cofano della sua macchina, e gli diedi il titolo, immediatamente condiviso. “E lui lo aveva capito”. Un giorno, infatti, nel suo studio in mansarda, davanti ad essa, si rivolse a Gianni dicendo: “Quando sarò morto consegna questa scultura a questa signora”. Era destino. 

Il mio “gabbiano” che ho seguito e ammirato in tante mostre, ora continua ad incantarmi ogni qualvolta lo sfioro, con un misto di gioia, dolcezza e vanto...

Nel calendario del Risveglio che composi anni fa con l’arte di Rino, su richiesta di Don Mario, presentando una sua scultura nel mese di agosto, provai a descrivere quella straordinaria sua capacità di vedere la forma all’interno di un rudere, e la determinazione, con tanto amore e rispetto per la materia, a liberarla, proprio con “L’ultimo volo del gabbiano”:

L’albero, il suo legno: una risorsa della natura che accompagna tutta la vita dell’uomo, dalla culla alla tomba, esaltata dalla croce...

Un ceppo, un tronco, un ramo abbandonato, scarnito dal passare del tempo all’aperto o imbevuto d’acqua per anni o secoli e poi riemerso in una secca del Po. La visione: un’emozione unica per l’artista! E già tutto il corpo in fremito per raccoglierlo, per portarlo a casa, per trovarci un posto... e poi le notti insonni per la smania di intagliarlo, di scavarlo, di modellarlo, e il pensiero e il tormento di dargli la forma, appena abbozzata su pezzi di carta, che è nella sua mente. Lavoro e sacrificio di mesi, tra la polvere e il rumore degli attrezzi, rigirandolo e riguardandolo da tutti i punti di vista e poi la cura per risanarlo, per lisciarlo e lucidarlo tirandone fuori l’anima in tutta la sua “bellezza”, e proporlo a nuova vita. Qui, il vecchio tronco non è più riconoscibile, al suo posto una raffinata forma in movimento con fluide e armoniche torsioni che danno risalto a meravigliose venature.

Ogni artista, cioè colui che lavora con mani, mente e cuore, grande o piccolo che sia, considerato o meno, vive nelle opere che ha realizzato, e chi è sulla sua lunghezza d’onda, ne sente la presenza...

Martedì 31 maggio, Rino Sgavetta sarà ricordato nel primo anniversario della morte, alle ore 18, con una Messa di suffragio nella Chiesa di San Giuseppe Lavoratore che ospita una sua grande scultura, “La Pietà”, donata nel 2013. 

L’opera consta di una sinuosa linea chiusa intagliata da una radice in legno d’ulivo, che avvolgendosi si libra nell’aria, con slancio e dinamismo di vuoto e pieno: la parte alta sembra flettersi nella sintesi del capo chino di Maria sopraffatta dal dolore, col velo che le scende dalle spalle; la fascia in basso s’inarca nell’abbandono del corpo di Gesù inerte sulle ginocchia della Madre. Il vuoto in mezzo può essere espressione del vuoto dato dal dolore della morte, che scava dentro, che toglie il respiro; e l’intelaiatura è come la forza della fede, una spina dorsale di speranza che sostiene Maria, che diviene esempio per tutti noi. 

Pietre, voce del passato, olio su juta a spatola, 2003

Non è facile al primo sguardo capire il messaggio, ma questo è anche il bello dell’espressione artistica. L’arte moderna ci aiuta a non fermarci alla sola esteriorità che conosciamo, ma a indagare un po’ più dentro di noi, per far emergere la nostra sensibilità più profonda e per trovare quel senso della vita che andiamo sempre cercando, anche in una forma strana e insolita.  

Fidenza 27 maggio 2022                                                 Mirella Capretti 

 

Verde a Tabiano, olio su juta, 1996.
Campagna... dallo studio del pittore
Tramonto con neve sul Rovacchia, olio su canapa a spatola, 1985

Terra d'autunno, olio su juta, dallo studio del pittore.

Nevicata...  olio su juta, dallo studio del pittore


Colori forti... dallo studio del pittore.


I curidurr. Acquerelli in mostra alle Orsoline di Fidenza

4 commenti:

  1. Un uomo buono e schivo, un grande artista. Brava, Mirella.

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    1. Grazie Mirella, le tue parole entro nel cuore profonde, e grazie anche al signor Ambrogio Ponzi che ho pubblicato queste magnifiche parole sul Reno e questa magnifica foto sempre con la Kolbe collaborazione di Mirella, che è stata sempre presente nei momenti speciali di Rino! Un salutone affettuoso da figlio GIANNI ❤️

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  2. Ringrazio la cara professoressa Capretti per questo ricordo, che mi ha fatto conoscere questo artista. Parole che mostrano l’affetto e la stima reciproche, meritate da ambo le parti. Grazie

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  3. Stupendo articolo, commovente e vivace. Mi hai fatto pensare ai valori che De Amicis divulgata col libro "Cuore" Quanta generosità e quanta finezza di sentimenti puri da parte tua e del pittore. Capisco che la sua presenza ti manchi molto, non è facile incontrare persone con le quali capirsi anche nel gesto di raccogliere radici e sognare insieme. Grazie Mirella per queste immagini che hai pennellato nel tuo racconto.

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