Immagine dall'archivio del Museo del Duomo di Fidenza. |
Una composizione originalissima, con grande affollamento in terra ed in cielo: davvero notevole questo "Martirio di S. Andrea", di proprietà della Cattedrale, stabilmente entrato a far parte delle collezioni del Museo del Duomo. Fratello di s. Pietro e pescatore insieme a lui, Andrea fu il primo degli apostoli a seguire Gesù.
I Vangeli canonici forniscono scarsi elementi relativi alla sua iconografia, che ha come fonte principale di ispirazione per gli artisti la Leggenda Aurea. Al testo duecentesco di Jacopo da Varazze si rifà anche il nostro pittore che raffigura s. Andrea come un vecchio vigoroso dalla lunga barba bianca issato su una croce a forma di X o decussata, diventata poi emblema e suo principale attributo identificativo: è la fase culminante del martirio, che la tradizione colloca nell'antica Patrasso.
Come si può vedere, l'avvenimento è attualizzato dagli abiti e dai copricapi turchi del variopinto popolino che assiste all'esecuzione mentre sulla destra, nel punto solitamente destinato ai committenti, risalta la figura di un notabile orientale con barba, manto e turbante.
L'imponente personaggio sembra appoggiarsi al bastone; davanti a lui, due donne con un bambino, come improbabili concubini senza il velo e dai tipici tratti mediterranei. Egea, lo spietato proconsole romano di cui parlano gli Atti degli Apostoli è invece riconoscibile in primo piano, sulla sinistra, in groppa a un focoso destriero. Indossa elmo e corazza e tiene saldamente impugnato nella mano destra il bastone del comando.
Fra i suoi attendenti, un alfiere con il gonfalone rosso e altri soldati, che sembrano guardare con indifferenza i carnefici mentre legano il santo (fu legato, non inchiodato alla croce) e si apprestano a trafiggerlo con la spada. Altri giannizzeri, mischiati tra la gente, mostrano minacciosi le lance o le frecce acuminate, sotto lo sguardo severo di un uomo sulle cui spalle pende un cappuccio lungo e aguzzo, che lo fa sembrare un frate. Intanto nel cielo, solcato da nubi corrusche, compaiono in gran numero gli angeli, che si apprestano a porgere al martire la palma della vittoria.
Le mura come i bastoni del Maschio Angioino
Colpisce in questa piccola tela, ritrovata nell'ultimo dopoguerra in un ripostiglio della sagrestia e fino a qualche anno fa esposta nell'aula capitolare della Cattedrale, la straordinaria vivacità della rappresentazione. Essa è ambientata nei pressi di una città fortificata le cui mura, come è stato a suo tempo acutamente osservato, ricordano i bastioni del Maschio Angioino e quindi piazza Castello, luogo "dove per spontanea conduzione da secoli si localizzavano fatti veri o leggendari di Napoli" (A.C. Quintavalle, 1948). Anche la segnatura, G.mo Cenatiempo, apposta in basso sopra un sasso, a destra, non lascia adito a dubbi sull'origine partenopea del quadro: si tratta infatti di Girolamo Cenatempo o Cenatiempo (attivo a Napoli tra 1705 e il 1744), come veniva abitualmente chiamato questo illustre seguace di Luca Giordano e di Francesco Solimena, che la storia dell'arte colloca tra gli artisti più rappresentativi del Settecento napoletano.
Non esistono notizie precise sul come il vivacissimo dipinto, dal "colore succoso ed intenso che ne fa interessanti anche le convenzionali figurine da presepe" (1948 cit.), sia pervenuto alla Chiesa di S. Donnino, ma non va sottovalutato il legame che intercorre tra il soggetto della tela e il titolo di un beneficio dedicato a s. Andrea che, come riferisce Dario Soresina (1976), risulta fondato in Cattedrale fin dal 1341.
D'altra parte, il culto dell'apostolo ha radici profonde nella chiesa di Borgo se, sui finire del Cinquecento, più precisamente nel luglio 1595 il canonico Alfonso Trecasali lamentava la scomparsa di un'antica chiesa campestre ad esso dedicata: ".. una nova qual mi dispiacque molto è che la notte... passata era cascato in terra tutto il tecchio della chiesa campestre di S.to Andrea posta et situata sopra il territorio di borgo posto nel quartiere di Lodispago con parte delle muraglie di detta chiesa posta presso la casa della possessione di detto messere Don Josepho, della qual chiesa è rettore uno D.o Andrea de Calandri: qual chiesa è andata a terra per puoca cura di chi gli doveva provvedere; nelli altri luoghi si fabbricano chiese et a casa nostra quelle che vi sono si lasciano andare a male, mai più si rifarà detta chiesa. Iddio ci aiuti" (cit. da P. Zani).
Evangelizzatore in Grecia e Vescovo di Patrasso
Nominata negli atti ecclesiastici parmensi già a partire dal sec. XII, l'ecclesia S. Andrea de Vadum Spagorum (di etimologia incerta: forse Guado degli Spaghi, dal nome di una famiglia borghigiana proprietaria di vasti insediamenti lungo lo Stirone) è ricordata anche dallo storico locale Stanislao Ferloni (sec. XVIII) che, nel rammentare la scomparsa, dà notizia del trasferito in Duomo degli obblighi relativi.
Forse è troppo azzardato pensare alla piccola tela come a un bozzetto per una pala d'altare, ma non si può certo escludere la volontà del canonico prebendario di riproporre in chiave anti-turca (per l'evidente parallelo allegorico con il "martirio" dei cristiani sottoposti all'Impero Ottomano) e a distanza di oltre un secolo dal crollo della chiesa di s. Andrea, l'antica devozione all'apostolo della croce la cui festa liturgica è fissata, come è noto, il 30 novembre.
Bartolomé Esteban Murillo, Martirio di sant'Andrea, Madrid, Museo del Prado |
Altri canonicati della Cattedrale traevano le loro rendite dai possedimenti situati nella vasta zona di Lodispago, come sembrano testimoniare i toponimi tuttora esistenti di "Prevostura" e "Santo Stefano", allineati con quello di "Sant' Andrea", a nord di Fidenza. Al canonicato di Santo Stefano, in particolare, è possibile riferire gli "antichissimi" affreschi ritrovati e poi subito distrutti durante i lavoro di riattamento della cripta effettuati nel 1853 (cfr. A. Aimi, 2003). Ma per tornare al martirio di s. Andrea firmato da Girolamo Cenatiempo, pittore probabilmente mai uscito dai confini del Regno di Napoli, va rimarcato ancora l'incredibile turbinio di angeli e la colorita moltitudine dei curiosi attorno al patibolo su cui è innalzato l'apostolo che fu evangelizzatore del mondo greco e primo vescovo di Patrasso.
Da tanta ricchezza e varietà di personaggi emerge un sorprendente campionario di umanità (anacronistici notabili orientali e popolani, donne e bambini, soldati e truci carnefici, proprio come in un autentico presepe napoletano). Ma anche il linguaggio sciolto e avveduto di un pittore formatosi all'ombra del Vesuvio, che ai tradizionali soggetti devozionali sapeva affiancare, come ha documentato Federico Zeri, spettacolari rappresentazioni di scontri e battaglie.
Guglielmo Ponzi
Pubblicato su “Il Risveglio” il 27 novembre 2009
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