Domenica 20 Maggio, alle ore 16,30, il Museo del Duomo e Diocesano ha aperto le porte per mostrare il suo nuovo assetto ed i tesori che contiene; come guida d'eccezione, la direttrice del Museo, dott.ssa Alessandra Mordacci.
Per la Maestà mariana, capolavoro dell'Antelami, appena tornata dal restauro, avvenuto presso l'Opificio delle Pietre dure di Firenze, è stato ricavato un ampio spazio alla sinistra dell'ingresso: Maria è seduta su di un trono ed è essa stessa un trono che sostiene un bambino divino, il quale benedice il mondo. Questa iconografia indica regalità e sacralità, probabilmente Maria, con la mano destra, ora mancante, teneva una rosa, indice di purezza ed innocenza ed anche i gigli che le decorano la corona alludono alla purezza.
La mano sinistra di Gesù regge un piccolo globo, segno di potere universale, mentre la destra benedice l’umanità con tre dita, simbolo della Trinità.
Preceduto da una saletta per videoproiezioni, troviamo una teca contenente altri tre, fondamentali reperti: il calice è un magnifico esempio di oreficeria germanica del XII-XIII secolo ed è mirabile il contrasto tra le lucide superfici lisce e le ricche articolazioni dei manici e del nodo, che collega la coppa alla base. I manici hanno forma di draghi alati, le “viverne”, i quali rappresentano il male da combattere. Il nodo, finemente decorato, nel 1207 divenne reliquiario, con l’inserimento di un dente di San Donnino. Da allora la coppa venne detta “Calice di San Donnino” e fiorirono varie leggende sui suoi poteri taumaturgici.
Il Cristianesimo ha ereditato l’uso dell’acqua come strumento di purificazione dalla tradizione ebraica, così, durante la messa, l’acquamanile era usato per versare acqua sulle mani del celebrante, per lavare via il male e il peccato. Questo prezioso oggetto, in bronzo dorato e argentato, risale alla metà del 1200; la forma di colomba richiama pace, purezza e libertà e la vite, raffigurata nel manico, è simbolo della benedizione e della vita di Gesù Cristo. L’acquamanile è stato scelto come emblema del Museo del Duomo di Fidenza.
Il prezioso cofanetto era un portagioie contenente i doni per la promessa sposa; fu creato per un matrimonio che univa le famiglie Pallavicino e Coiro. Sui bordi superiori, si vedono coppie di genietti alati reggere un disco, mentre sotto, uomini e donne in atteggiamenti galanti sono protetti da figure armate di clava, poste agli angoli. Le decorazioni esterne sono in avorio e osso intagliato, mentre l’interno è rivestito di seta. Quando il cofanetto fu donato alla Cattedrale, fu trasformato in un reliquiario, attestando, con la sua preziosità, il valore attribuito alla reliquia in esso contenuta.
Salendo le scale, siamo stati accolti da una musica celestiale: infatti, Maria Caruso cantava, accompagnandosi con l'arpa gotica, brani musicali medievali a tema mariano.
Sul primo pianerottolo, è stato posizionato il fonte battesimale di epoca romanica, in marmo bianco di Verona; si trovava nella Cattedrale, poggiante su un telamone, cioè una figura maschile ed era adibito a “pila” per l’acqua santa. Alcuni ipotizzano possa trattarsi di una fontana, dalla quale l’acqua cadeva in una vasca sottostante, in cui venivano immersi i battezzandi.
Al piano superiore, l'affresco di San Giorgio e il drago si trova, ora, sulla parete sinistra; per gli ambienti, sono stati scelti i toni del grigio e del rosso amaranto, al fine di ravvivare ed impreziosire oggetti e sale. La leggenda racconta che San Giorgio, forte della guida e della protezione divina, liberò la principessa Silene, condannata ad essere mangiata da un orrido drago. Riconoscendo la straordinaria impresa del paladino, l’intera popolazione del regno si sarebbe, quindi, convertita al Cristianesimo. La simbologia è il bene (protetto dal divino) che sconfigge il male. Lo scontro tra San Giorgio e il drago divenne il simbolo della lotta fra cristianità e paganesimo. L’affresco, attribuito a Bartolomeo e Jacopino da Reggio, risale al XIV secolo.
Sul primo pianerottolo, è stato posizionato il fonte battesimale di epoca romanica, in marmo bianco di Verona; si trovava nella Cattedrale, poggiante su un telamone, cioè una figura maschile ed era adibito a “pila” per l’acqua santa. Alcuni ipotizzano possa trattarsi di una fontana, dalla quale l’acqua cadeva in una vasca sottostante, in cui venivano immersi i battezzandi.
Al piano superiore, l'affresco di San Giorgio e il drago si trova, ora, sulla parete sinistra; per gli ambienti, sono stati scelti i toni del grigio e del rosso amaranto, al fine di ravvivare ed impreziosire oggetti e sale. La leggenda racconta che San Giorgio, forte della guida e della protezione divina, liberò la principessa Silene, condannata ad essere mangiata da un orrido drago. Riconoscendo la straordinaria impresa del paladino, l’intera popolazione del regno si sarebbe, quindi, convertita al Cristianesimo. La simbologia è il bene (protetto dal divino) che sconfigge il male. Lo scontro tra San Giorgio e il drago divenne il simbolo della lotta fra cristianità e paganesimo. L’affresco, attribuito a Bartolomeo e Jacopino da Reggio, risale al XIV secolo.
La direttrice non si è soffermata sulle teche contenenti paramenti ed oggetti liturgici preziosi, motivo di una prossima visita guidata, ma ci ha condotto nella quadrerìa, dove sono stati raccolte opere di tema mariano, a cominciare dalla Madonna Assunta con San Rocco: Maria viene assunta in cielo, sotto lo sguardo adorante di San Rocco e del committente, un nobile locale. San Rocco, riconoscibile dalla piaga sulla sua coscia, fu contagiato mentre soccorreva i malati di peste. Sarebbe guarito, secondo la tradizione, dopo essersi ritirato in una grotta, dove ogni giorno un cane gli portava un pezzo di pane. Originario di Montpellier, divenne molto popolare nel Medioevo come protettore contro la peste e, più in generale, contro le catastrofi naturali e le malattie del bestiame. Vincenzo Campi realizzò questo dipinto nel 1576, inserendo, accanto alle figure sacre, il committente, in una sorta di “selfie pittorico”, frequente all’epoca.
La Deposizione di Cristo si discosta dal racconto evangelico: a sostenere il livido corpo di Gesù sono due angeli, anziché Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, il quale compare, invece, sullo sfondo, accanto alla Madonna dolente. Lo scopo del dipinto è, quindi, suscitare la devozione del fedele, e non di raccontare una scena. Questo lavoro, non firmato, del XVI secolo, è attribuito a Vincenzo Campi e proviene dalla chiesa parrocchiale di San Cristoforo di Vidalenzo, piccola frazione di Polesine Parmense.
Beatrice Rebecchi
Grazie, Beatrice,
RispondiEliminaper avermi fatto rifare il "giro" di domenica pomeriggio, con competenza e passione, tra i tesori del nostro prestigioso Museo del Duomo!
È stato un vero piacere.
Di nulla, Mirella, è stato un piacere anche per me e devo dire che il nuovo assetto valorizza il Museo, dunque complimenti ad Alessandra Mordacci ed a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso.
RispondiEliminaQuanto alla competenza, magari un pochino, ma ho attinto dal lavoro che i miei studenti hanno presentato al Ridotto il 3 Maggio...Ormai, dopo due anni, siamo "addentro alle segrete cose"! Inoltre, la mia tesi di laura si intitola "Pittura cremonese del "500 nello Stato Pallavicino", dunque la quadrerìa mi ha fatto tornare indietro nel tempo...
Grazie a te, sempre presente alle occasioni culturali e protagonista.
I tuoi ed i miei studenti ti ricordano, infatti, con affetto e stima.